domenica 22 agosto 2010

I tre Parlamenti di Alcide De Gasperi

Pubblichiamo la LECTIO MAGISTRALIS tenuta il 18 agosto 2010 dal Prof. Francesco Traniello nell'ambito di un evento organizzato dalla Fondazione Trentina Alcide De Gasperi in collaborazione con la Provincia autonoma di Trento, l'Istituto Luigi Sturzo di Roma, il Comune di Pieve Tesino, il Comprensorio della Bassa Valsugana e Tesino e il Centro Studi Alpino dell'Università della Tuscia.
Invitiamo alla lettura del testo.


1. I governanti italiani si sono tradizionalmente divisi in due categorie, non sempre coincidenti con le loro origini politiche. Crispi, Mussolini, e qualcun altro venuto prima o dopo, non amavano il Parlamento e la vita parlamentare. Parlamentarismo per una parte considerevole della cultura politica italiana ha avuto, come continua ad avere,un suono sinistro, come sinonimo di bizantinismo, di perdita di tempo, di giochi sottobanco. Assai di frequente si è accompagnato ad altra parola spregiativa, trasformismo. Nel suo primo celeberrimo discorso pronunciato in Parlamento come presidente de consiglio, Mussolini parlò di "aula sorda e grigia", che non era proprio una dimostrazione di stima, aggiungendo che avrebbe potuto trasformarla in un bivacco di camicie nere, che non era proprio una prospettiva amichevole.L'antiparlamentarismo fu uno delle costanti del suo agire politico, uno slogan infinite volte ripetuto, che a quanto pare faceva un buon effetto, riscuoteva successo.

Cavour, viceversa, soleva dire che non si sentiva mai così sicuro nella sua azione politica come quando il parlamento era aperto: non usò mai i toni della minaccia verso il Parlamento, che pure non mancò dicontrastarlo e di attaccarlo duramente: in Parlamento ebbe, tra l'altro,scontri violentissimi con Garibaldi, debitamente sottaciuti dall'oleografia risorgimentale che li ha poi fatti andare a braccetto. A parte il fatto che allora le sessioni parlamentari erano brevi anche perché i parlamentari NON ERANO PAGATIi, Cavour puntò sempre sul Parlamento, non solo per equilibrare e spesso contrastare il potere del re. Fece del Parlamento l'architrave della sua opera politica. Convincere il Parlamento della bontà o della ragionevolezza delle scelte del suo governo, per ottenerne il consenso, era per lui molto più di un obbligo, era la garanzia di camminare sulla strada giusta. Tenne discorsi parlamentari memorabili, anche stilisticamente, per non parlare della forza persuasiva. Temeva istintivamente i leader che pensavano di poter mettere il Parlamento in un angolo o di farne una semplice cassa di risonanza dei propri proclami. Vi sentiva spirare il vento della demagogia, giacobina oreazionaria che fosse. De Gasperi era in questo, come in altre cose, un AUTENTICO CAVOURIANO.

Ma a differenza di Cavour, il quale ebbe a che fare con ilsolo Parlamento subalpino, e per brevissimo tempo con quello italiano (che ne era poi un diretto prolungamento), De Gasperi agì in tre Parlamenti molto diversi tra loro. Fu eletto nel 1911 come rappresentante del Trentino alla Camera dei deputati (Haus der Abgeordneten) del Reichsrat austriaco, dove sedette fino all'ottobre 1918, fase terminale e catastrofica della vita dell'Impero. Divenuto cittadino italiano con l'annessione del Trentino, entrò nel Parlamento del Regno d'Italia con le elezioni del 1921, e vi restò,formalmente, sino al 1926, quando Mussolini fece proclamare decaduti i parlamentari aventiniani (tra cui De Gasperi), mettendo poi fuori legge i partiti d'opposizione. Infine, eletto all'Assemblea costituente il 2 giugno1946 quand'era già diventato presidente del consiglio, entrò come vincitore indiscusso delle elezioni del 18 aprile 1948 nel primo parlamento repubblicano,che gli confermò ininterrottamente la presidenza del consiglio, per essere poi ancora per breve tempo, fino alla morte, parlamentare della seconda legislatura.

Vale la pena di osservare prima di ogni altra cosa che tutti e tre i Parlamenti in cui De Gasperi fu eletto, segnavano un momento di discontinuità rispetto ai sistemi rappresentativi che li avevano preceduti.

Solo dal 1907 la Camera dei deputati del Reichsrat austriaco era eletta a suffragio universale maschile e diretto. Ciò aveva prodotto un rafforzamento delle rappresentanze delle minoranze "nazionali" e, soprattutto, un loro più diffuso radicamento nei ceti popolari, specialmente delle campagne. Proprio questi fatti avevano propiziato il considerevole successo conseguito dal partito cattolico trentino, in cui De Gasperi militava, diventandone uno dei leader.

Altra peculiarità – ma di più antica data – del Parlamento austriaco consisteva nella sovrapposizione e nell'intreccio che vi si realizzava tra appartenenze dei deputati ad alcune grandi aree politiche, e appartenenze alle diverse nazionalità dell'Impero, ai cui rappresentanti era anche riconosciuta la facoltà di esprimersi nella propria lingua. De Gasperi,ben consapevole dell'importanza del medium linguistico in un'assemblea già così frastagliata, scelse deliberatamente di utilizzare nei suoi discorsi e interventi la lingua tedesca, che conosceva bene ma non era la sua lingua madre. Sono propenso a credere che l'obbligo auto-assunto di esprimersi intedesco contribuì non poco all'efficacia dello stile parlamentare degasperiano,costringendolo a "pensare" in termini essenziali quello che aveva da dire,all'abbandono di orpelli e stilemi retoricamente vuoti, facendone, insomma, un ORATORE POLITICO MODERNO, di timbro francamente poco italico. In quei discorsi in lingua tedesca, che gli furono poi miserabilmente rinfacciati dai nazionalisti e dai fascisti (e da qualcun altro) di casa nostra, c'erano gli incunaboli di uno stile parlamentare abissalmente distante dal dannunzianesimo dilagante, un esercizio di disciplina retorica che protendeva le sue radici in un atteggiamento dello spirito, in altra, ancor più impegnativa, AUTODISCIPLINA.

Il Parlamento del Regno d'Italia in cui De Gasperi mise piede per la prima volta nel 1921 (poiché nelle elezioni politiche del 1919 i cittadini delle terre irredente ora annesse non furono chiamati alle urne e non poterono esprimere propri rappresentanti), era altra cosa rispetto al Reichsrat austriaco, ma era pure altra cosa rispetto al Parlamento italiano dell'epoca prebellica. L'adozione avvenuta nel 1919 del sistema proporzionale con voto di lista – uno dei molteplici contraccolpi politici della grande guerra – non aveva solo modificato la geografia parlamentare a vantaggio precipuo dei socialisti e del neonato Partito popolare, ma aveva segnato la transizione a un modello parlamentare in cui i canali della rappresentanza erano passati in parte considerevole nelle mani di partiti configurati come aree politicheorganizzate intorno a sistemi ideologici e programmatici in competizione.Essendo cambiati gli attori, era cambiata la scena e in buona parte anche il teatro. De Gasperi ebbe parte attiva in questo cambiamento di scena,perché, appena eletto, gli fu affidata, un po' sorprendentemente, la presidenza dei deputati popolari: sorprendentemente, dico, considerato che non aveva alcuna esperienza di vita parlamentare italiana, e solo indiretta conoscenza delle complesse e contrastanti matrici storiche da cui era rampollato il Partito popolare.

In un contesto generale di discontinuità era egli stesso un fattore di discontinuità.

Per sua sventura si trovò a guidare e a rappresentare, nei momenti nevralgici che costellarono la storia nazionale tra il 1922 e il 1925 -quando l'intero sistema rappresentativo fu scardinato dal fascismo -, il gruppo parlamentare di un partito attraversato da opposte pulsioni, privato nel 1923 del suo leader più prestigioso (con le dimissioni forzate di Sturzo dalla segreteria seguite dal suo esilio), fatto oggetto nelle sue strutture di base delle violenze fasciste, eroso nella sua classe dirigente da spinte scissionistiche e abbandonato da una gerarchia ecclesiastica che non lo aveva mai guardato con particolare favore. Un partito e un gruppo parlamentare con cui era ben difficile, se non impossibile, impostare, in quel clima e in quelle condizioni, una strategia politica degna di questo nome, stringere alleanze affidabili, esercitare, in poche parole, le funzioni e i ruoli che il sistema parlamentare post-bellico esigeva dai suoi protagonisti. Mussolini ebbe buongioco a sfruttare questa, come altre circostanze, per cambiare le regole delgioco e sovvertire il vituperato parlamentarismo. Come lo stesso De Gasperi riconobbe, fu – per lui che aveva a lungo accarezzato l'idea di una stabilizzazione del sistema politico analoga a quella realizzata dai grandi partiti della Germania di Weimar – una tragica e personale sconfitta. Ma fu pure una straordinaria occasione di apprendimento, anche per quanto attiene ai meccanismi, sottili e spietati, della lotta parlamentare.

Dire che il terzo Parlamento di De Gasperi, quello dell'Italia repubblicana preceduto e connesso alla Costituente, quello che lo vide imporsi come statista di statura europea, rappresentava una discontinuità non solo rispetto agli pseudo-Parlamenti dell'era fascista, ma anche rispetto al Parlamento del primo dopo-guerra, può apparire un'ovvietà, quando si consideri quanto era accaduto nel quarto di secolo che li separava. In mezzo c'erano stati venti anni di dittatura, una seconda guerra mondiale catastroficamente perduta, il crollo del regime, la divisione e la doppiaoccupazione militare dell'Italia, la Resistenza e la guerra civile, la lunga fase d itransizione istituzionale, la caduta della monarchia, l'elezione e i lavori della Costituente, gli estenuanti negoziati di pace e la contestata firma del trattato di pace, l'entrata in vigore della nuova costituzione repubblicana, la fine della coalizione di governo con le Sinistre.

Sebbene le famiglie politiche cui appartenevano i rappresentanti eletti al Parlamento repubblicano, e prima ancora allaCostituente, non fossero poi dissimili da quelle del primo dopo-guerra, erano totalmente cambiati i rapporti di forza, cioè gli equilibri parlamentari determinati dall'entità dei consensi elettorali raccolti.

Profondamente rinnovato era anche il profilo generazionalee culturale della rappresentanza, ancorché non fossero pochi i superstiti del ceto parlamentare del primo dopo-guerra, molti dei quali ritemprati dalla lungastagione di oscuramento determinato dalla dittatura, com'era appunto il caso diAlcide De Gasperi.

I diritti politici avevano fatto un balzo in avanti nel1946 con l'estensione del suffragio alle donne, che aveva più che raddoppiato in un sol colpo il corpo elettorale.

Ma erano in particolare due fattori, che potremmo definire di natura istituzionale, a imprimere al Parlamento repubblicano una differente configurazione.

Il primo stava nel fatto che i partiti di massa, cioè dotati di uno stabile apparato organizzativo e di direzione, di un insediamento capillare sul territorio e affiancati da un associazionismo di vario genere ma diffuso a largo raggio, si erano imposti come forma politica dominante anche sul piano parlamentare molto al di là di quanto accaduto nel primo dopoguerra.Partiti organizzati su basi di massa voleva dire consenso elettorale più stabile anche se non immobile (e lo dimostrarono i risultati delle elezioni del1946 e del 1948), ma voleva dire soprattutto che i partiti si ponevano ora come attori politici più solidi ed affidabili, con rappresentanze parlamentari più vincolate che in precedenza alle linee politiche stabilite nelle sedi deputate.Questo cambiava in misura notevole i meccanismi del confronto parlamentare e rendeva più forte, ma anche più decisivo, l'esercizio della leadership: più forte, perché essa poteva disporre di un retroterra più strutturato; più decisivo,perché dalla leadership dipendeva la direzione di marcia di un vasto retroterrasociale, che nel caso del partito democratico cristiano di De Gasperi risultavaquanto mai articolato, intrecciandosi, tra l'altro, con il tessuto diassociazioni legate alla Chiesa cattolica.

Il secondo fattore di novità stava nel fatto che in regime repubblicano si era dissolto il potere esterno al Parlamento detenuto dalla monarchia, che aveva fornito pessime prove di sé anche solo come garante dell'ordine statutario, ma che, caduto il regime, era tornata a costituire unimportante punto di riferimento, almeno simbolico, per una parte consistente del popolo italiano (come venne a confermare il referendum del 2 giugno '46).Abbattuto il regime monarchico, la costituzione repubblicana aveva accresciuto considerevolmente il ruolo del Parlamento: aveva fatto dipendere formalmente la vita dei governi dal conseguimento della fiducia parlamentare (il che non era in regime statutario), aveva rimesso alle Camere riunite l'elezione de lPresidente della Repubblica, aveva conferito ai partiti rilevanza costituzionale e così via.



Non credo di essere lontano dalla verità se affermo che pochissimi altri leader – nessuno, comunque, tra quelli a me noti – furono chiamati a confrontarsi nella loro biografia politica con con testi parlamentari così lontani nel tempo e così difformi nella sostanza, né a partecipare direttamente, per quasi mezzo secolo, a fasi cruciali di snodo della storia europea – il crollo dell'impero asburgico, la crisi delle istituzioni liberali e la vittoria del fascismo, l'avvento della democrazia repubblicana in Italia e il suo collocarsi in uno scenario internazionale totalmente cambiato, i primi passi dell'integrazione europea – che si erano rispecchiate in ciascuno di quei Parlamenti. La cosa è tanto più sorprendente ove si consideri la fedeltà mantenuta da De Gasperi, in contingenze storiche e personali così disparate, al nocciolo di una visione politica esente da conversioni o svolte clamorose,dotata di una sua interna coerenza quanto, proprio per questo, pronta a misurarsi con situazioni oggettive difficilmente comparabili: una visione politica che aveva nella fiducia verso il sistema parlamentare basato sul suffragio universale e sulla pluralità di partiti in competizione uno dei suoi maggiori e costanti punti di forza.



Ciò detto, occorre però subito aggiungere che De Gasperi intrattenne con i tre Parlamenti di cui fece parte rapporti di specie molto diversa perché dipendenti dai ben differenti ruoli di volta in volta da lui ricoperti.

Egli fece la sua prima esperienza parlamentare come uno dei rappresentanti di una minoranza nazionale di modesto rilievo nel corpo di un vasto Impero multinazionale, poco collegata persino alle altre minoranze italiane della monarchia asburgica, emarginata dalla più forte nazionalità tedesca, sacrificata e repressa dopo l'apertura del conflitto italo-austriaco.

La seconda esperienza lo vide alla testa del gruppo parlamentare (e per breve tempo, in una situazione già compromessa, alla segreteria politica) di un partito nazionale di considerevole entità, ma costituito da poco tempo e da lui non conosciuto a fondo, un partito a vocazione governativa e passato, tra molte incertezze, all'opposizione,coinvolto in una crisi che investiva la forma e la sostanza del regime parlamentare, ma i cui veri protagonisti stavano altrove rispetto alParlamento.

Di tutt'altra natura fu la terza e decisiva esperienza parlamentare di De Gasperi. Anzitutto in ragione della sua carica di capo del governo cui era pervenuto prima e al di fuori di una verifica elettorale, in una situazione di incertezza circa la reale consistenza delle forze in campo,in una fase di transizione in cui il sistema parlamentare non aveva ancora preso forma costituzionale. Della premiership che gli era stata conferita allafine del '45 dai partiti del CLN, De Gasperi si avvalse con grande determinazione e persino con spregiudicatezza, in primo luogo per ottenere che fosse rimessa al voto popolare la scelta istituzionale, e poi per"parlamentarizzare" la Costituente, nel senso di farne il luogo in cui, essendo"l'espressione della sovranità popolare" (come aveva detto il 25 giugno 1946 inaugurandone i lavori), si formavano o si mutavano o si potevano anche sciogliere le maggioranze di governo, e dunque spostando in un corpo elettivo come la Costituente la fonte di legittimità della propria premiership. Fu questo cruciale spostamento che gli permise di conservarla in occasione della svolta realizzata nel maggio del '47 mettendo fine al tripartito, completata nell'autunno con la formazione dell'alleanza di centro, e di tenerla nelle proprie mani fino alle elezioni del '48. Esse segnarono la stabilizzazione di un sistema parlamentare che aveva trovato forma nella Costituzione ma in De Gasperi il proprio fulcro politico, tanto da confermargli la guida del governo per tutta la prima legislatura.



2.Guardiamo ora un po' più da vicino la messe di interventi parlamentare di cui De Gasperi fu autore, ora interamente a nostra diposizione grazie alla meritoria raccolta completa degli Scritti e discorsi politici promossa dalla Provincia autonoma di Trento e dalla Fondazione Bruno Kessler. S'intende che in tale massa di documenti, molti dei quali meriterebbero un'analisi a parte, dovremo procedere con criteri altamente selettivi, proponendoci un obiettivo essenzialmente comparativo, che vorrebbe anche dare un'idea dell'evoluzione dello stile parlamentare degasperiano.

Alla Camera dei deputati di Vienna de Gasperi pronunciò, in lingua tedesca, poco più di una decina di interventi tra discorsi,interrogazioni e interpellanze. Il dato più evidente che ne risulta concerne il fatto che tutti riguardavano cose rigorosamente trentine, concentrandosi in particolare – dopo la lunga sospensione dei lavori parlamentari seguita all'inizio della guerra – sulle condizioni oppressive e persecutorie messe in atto dalle autorità civili e militari nei confronti dei trentini. La questione assunse rilievo dominante nel penultimo, memorabile, discorso tenuto al Parlamento austriaco il 4 ottobre 1918, dunque appena alla vigilia del tracollo. Vi siparlava dei "soldati di lingua italiana che vengono ora vilipesi, maltrattati,degradati e messi in compagnie disciplinari", ma più in generale del popolo trentino, situato "sulla linea del fuoco o immediatamente dietro il fronte",ridotto alla fame anche per le ruberie dei militari, in parte disperso coattivamente nei campi profughi (un imponente fenomeno per fronteggiare il quale De Gasperi si era, come noto, intensamente prodigato), "non più un popolo, ma la rovina di un popolo, membra sparse di un organismo in agonia";sicché "se noi [trentini] dovessimo distaccarci da questa unione statale,allora il governo e i partiti tedeschi dovrebbero chiedere alla loro coscienza se non hanno fatto tutto il possibile per renderci più facile questo passo". Non era tuttavia una minaccia e neppure un auspicio. In quel discorso degasperiano ancora si avverte una resistenza interiore ad immaginare che la salvezza del popolo trentino potesse venire affidata, toutcourt, ad un distacco dal corpo dell'Impero, congiunta peraltro con la convinzione assolutamente realistica che la sorte del Trentino dipendesse ormai interamente dalla "decisione delle armi". Il discorso si concludeva nel nome di Dante, prendendo spunto dalla cancellazione della scritta, invocante la fraternità tra i popoli, posta in origine sul monumento a lui dedicato nella grande piazza di Trento: "Abbiamo fiducia che noi – dato che abbiamo già citato Dante – 'da questo inferno di orrore e di tormento' finalmente risorgeremo per approdare come il nostro divino poeta sull'isola della luce, davanti al mare aperto, sul quale si avvicinano gli spiriti, cantando in coro 'In exitu Israelde Aegypto, con quanto di quel salmo è poscia scripto'". Dove non può non colpire il fatto che la simbologia dantesca, che si sarebbe così agevolmente prestata ad una lettura irredentistica (e che del resto faceva parte da tempo del repertorio risorgimentale), veniva invece utilizzata in senso, per così dire, universalistico, come immagine di un'ascensione dagli orrori e daitormenti veramente infernali della guerra ai lidi della pace, e di un approdopieno di speranza al "grande giorno della fratellanza dell'umanità fondata sulla giustizia".

Non furono molto numerosi, nel complesso una quindicina,neppure gli interventi di De Gasperi nel Parlamento italiano del primodopoguerra, tutti concentrati peraltro nel triennio dal 1921 al 1923: quando lalegislatura fu interrotta dopo l'approvazione della legge Acerbo che scardinava il sistema proporzionale, mentre la legislazione successiva, iniziata sotto il segno del delitto Matteotti, fu caratterizzata dalla secessione aventiniana, inseguito alla quale De Gasperi non poté più rimettere piede in Parlamento. Idiscorsi parlamentari di questo breve ma cruciale periodo sono tuttavia importanti perché testimoniano del progressivo allargamento dell'orizzontepolitico degasperiano. Ancora inizialmente polarizzati sulle vicende del Trentino annesso al Regno d'Italia (vicende in vario senso lacrimevoli per chi come De Gasperi aveva puntato sul potenziamento e non sul ridimensionamento,com'era di fatto accaduto, dei margini di autonomia della sua regione, e preconizzato rapporti di collaborazione con la minoranza tedesca sud-tirolese),i suoi interventi parlamentari mutarono decisamente di tono e di respiro all'indomani dell'avvento di Mussolini al governo. Sotto questo profilo, quello del 17 novembre 1922, pronunciato in sede di dibattito sul governo appena costituito, può essere considerato a tutti gli effetti il primo vero discorso politico tenuto da De Gasperi in sedeparlamentare. Gli obiettivi che si proponeva di raggiungere non erano facilmente tra loro compatibili: egli doveva giustificare le ragioni dell'appoggio dei popolari al governo (che si era tradotto nell'ingresso di alcuni loro esponenti nella compagine ministeriale) e rimarcare nel contempo tutte le distanze che separavano i fascisti dai popolari. L'asse del discorso finiva così per ruotare intorno ad una puntuale difesa delle inderogabili prerogative di metodo e di sostanza del modello parlamentare rispetto ai tentativi disvuotarlo o di sostituirlo. Vi si riconosceva senza infingimenti che l'avvento del governo Mussolini era il prodotto di un "fatto rivoluzionario", di un"rivolgimento istituzionale" dalle origini complesse, ma in buona partericonducibile "alla paralisi statale causata dall'eccessivo accentramento dei poteri", che anche i popolari intendevano combattere; ma volevano farlo con i mezzi legali non con "l'azione diretta e violenta" messa in opera dai fascisti,metodo non rispondente "ai nostri criteri etici e politici". Ciò nondimeno,"dopo che il movimento insurrezionale ebbe vita costituzionale dall'incarico della Corona", i popolari avevano accettato di entrare nel governo, "con la ferma speranza che al di là di ogni valutazione della sua opera e della sua funzionalità passate, quell'istituto parlamentare che i nostri padri ci hanno conquistato attraverso il martirio delle lotte per la libertà e che rappresenta il patto d'alleanza fra la maestà del re e il suo popolo debba rimanere perrinvigorirsi a presidio della libertà dei cittadini e per la grandezza d'Italia[...]. Né può supporsi in alcuno il proposito di ritornare ai governi paterni e illuminati, riducendo il Parlamento ad una funzione meramente consultiva"("Sarebbe già una gran funzione", suonava a questo punto un'interruzione sarcastica del presidente del consiglio). Quanto poi alla minaccia di un possibile scioglimento del Parlamento, adlibitum del premier, De Gasperi ricordava le prerogative del monarca in proposito, e poneva come condizione "che il sistema elettorale non fosse mutato con artifici aritmetici e geometrici che sovrappongano una minoranza alla maggioranza o ledano il principio della giustizia rappresentativa" ("E non permettano di governare",ribatteva piccato Mussolini dai banchi del governo). De Gasperi, seppur con toni pacati, esponeva dunque caparbiamente tutte le idiosincrasie politiche che avvertiva nei riguardi di Mussolini e del fascismo, a cominciare dall'uso di un linguaggio "che da questi banchi non può essere accolto". In definitiva, più che un discorso di fiducia quello di De Gasperi aveva il tono di un auspicio che il ruolo di governo al quale Mussolini era pervenuto, potesse modificarne i comportamenti. Era, se vogliamo, una variante sul tema della possibile"parlamentarizzazione" del fascismo, che rifletteva peraltro le vistose ambiguità con cui il gruppo popolare aveva accolto il governo Mussolini. Ma DeGasperi ci metteva di suo la nettezza di un ragionamento politico, che univa lamoderazione dei toni alla precisa enunciazione delle condizioni a cui ipopolari, e lui stesso come loro interprete, subordinavano la collaborazione.Quanto poi al totale fallimento del tentativo di "incanalare la rivoluzionefascista nella costituzione, nell'ordine, nella libertà", e alle ragioni della disponibilità di De Gasperi a intraprendere quel tentativo, sarebbe necessario un lungo discorso che ci porterebbe molto oltre il tema circoscritto a cui intendo qui attenermi.

Per questo stesso motivo mi è francamente impossibileentrare anche per sommi capi nel merito dell'imponente mole di discorsi che DeGasperi ebbe a pronunciare prima all'Assemblea costituente e poi davanti alle due camere del Parlamento repubblicano. Basti considerare che alla Costituente,trascurando gli interventi tecnici o su questioni di carattere particolare,egli svolse, dal giugno 1946 al gennaio 1948, almeno 40 interventi di indiscutibile rilevanza politica, sia sul piano interno sia su quello internazionale; e che davanti alle camere del Parlamento repubblicano,pronunciò tra il giugno 1948 e la fine di gennaio 1954 (data del suo ultimo discorso parlamentare), oltre 130 interventi. Si trattava in molti casi di discorsi connotati da un'estensione e da una complessità argomentativa che li rendevano pressoché imparagonabili a tutti i suoi precedenti (e tali da occupare nel complesso circa 1.000 pagine a stampa della citata edizione di Scritti e discorsi politici). È da osservare, in secondo luogo, che De Gasperi li pronunciò tutti nelle vesti di presidente del consiglio – carica a cui cumulava in certi periodi nevralgici quella di ministro degli esteri – con due sole eccezioni. La prima fu il discorso,relativamente breve quanto reciso, tenuto il 23 marzo 1947 alla Costituente,alla chiusura del dibattito sull'articolo 5 della Costituzione relativo ai rapporti tra lo Stato e la Chiesa (quello per intenderci che includeva il contestatissimo riferimento ai Patti Lateranensi): che fu anche l'unico articolo della Costituzione su cui volle far sentire formalmente la sua voce,ma parlando dall'emiciclo e non nella veste di Presidente del consiglio. La seconda fu l'ultimo amaro discorso del 29 gennaio 1954 in appoggio all'appena varato governo Fanfani, che poi non ottenne la fiducia.



È del tutto superfluo rilevare che nella trama di una siffatta ingentissima documentazione si può leggere e rileggere come in presa diretta un'epoca intera di storia italiana, in cui, estendendo quanto detto daDe Gasperi all'inaugurazione dei lavori della Costituente, si era compiuto "il più grande rivolgimento della storia politica dell'Italia moderna". Ma vi sileggono parimenti le qualità di un leader, che sapeva imprimere alle scelte più difficili, molto contrastate, di grande respiro strategico, una straordinaria forza di convinzione, unita, se necessario, ad una potenza polemica giocata su tutti i registri di un'abilità retorica condita talora di ironia, talaltra di umana commozione, che non era però mai fine a se stessa: anche se, per nostra sfortuna, non potremo mai più integrare compiutamente il testo dei suoi discorsi parlamentari con quel suo inconfondibile tratto oratorio, che, per chi ha avuto occasione di conoscerlo dal vivo, costituiva un motivo di fascino irrimediabilmente perduto nella parola scritta.



Proprio riferendomi al De Gasperi polemista vorrei chiudere questa mia chiacchierata: partendo dalla constatazione che le sue qualità oratorie venivano in certo modo esaltate nei discorsi di replica, quando gli avversari politici erano venuti allo scoperto ed egli era tenuto a rispondere senza avere molto tempo per prepararsi, oppure quando era stato duramente attaccato con argomenti che riteneva lesivi della sua personale credibilità politica o mettevano in dubbio la sincerità delle sue intenzioni. Esemplare in tal senso mi sembra il discorso di chiusura del dibattito sul suo quarto ministero, pronunciato il 21 giugno 1947 davanti alla Costituente. Il dibattito, iniziato il 9 giugno, era stato animatissimo e costellato di spunti polemici, talora di vere aggressioni verbali, come si conveniva ad un momentodi svolta nella storia politica e parlamentare del dopoguerra. Tutti iprincipali leader vi erano intervenuti. La lunga crisi che aveva preceduto la formazione del ministero era stata ricca di colpi di scena: si era tra l'altro affacciata l'ipotesi di un governo guidato da autorevoli esponenti del vecchio ceto liberale, come Nitti e Orlando, autentici "monumenti" della storia italiana. Alla fine il bandolo della matassa era tornato nelle mani di De Gasperi, che aveva formato un governo monocolore democristiano, ma infarcito di"tecnici" d'area liberale, come Einaudi o Merzagora. Tutti gli argomenti più delicati e scottanti del momento - crisi della lira e difficoltà economiche,conseguenze del trattato di pace e collocazione internazionale dell'Italia,tensioni sociali di vario genere, pressioni di influenti settori ecclesiasticie così via - erano stati toccati e perlustrati in lungo e in largo. De Gasperia veva potuto raccogliere le fila per la sua replica solo la mattina di quello stesso 21 giugno. Ne venne fuori un intervento vivacissimo, in parte certamente pronunciato a braccio, frequentemente interrotto da commenti, applausi,proteste, ilarità, segni di dissenso, vivissimi rumori, tutti segnalati da lprocesso verbale: un intervento condotto per molta parte in forma polemicamente dialogica ("caro Nenni", "caro Morandi", "caro Di Vittorio", mai però "caroTogliatti" richiamato sempre in terza persona). Il suo principale obiettivo era quello di dimostrare le molte contraddizioni in cui si erano avviluppati gli ex-alleati della Sinistra, e in modo particolare il doppio registro da loro seguito in sede di governo e nelle sedi di partito o di fronte all'opinione pubblica: a questo fine non aveva esitato ad attingere largamente a fonti giornalistiche e a dichiarazioni rilasciate dagli oppositori. Ma a ripercorrere tutta la trama del discorso si avverte la netta sensazione che De Gasperi viavesse scelto come suo primo interlocutore il leader socialista Pietro Nenni,dedicandogli un'attenzione molto speciale, in cui si frammischiavano un sincero affetto per la persona, che datava da anni, il senso di delusione per vederlo ormai schierato tra gli oppositori, il rammarico per non essere riuscito a coinvolgere lui e il suo partito in un più vasto disegno di stabilizzazione che risaliva a un quarto di secolo innanzi: "Sì, lo confesso, volevo specialmente la collaborazione con i socialisti temperati. [...] Certo, io penso anche oggi che per l'Italia sarebbe una fortuna se si potesse costruire, accanto alla democrazia cristiana, una democrazia dirò così laica, una democrazia socialista, in modo che le due forze potessero nei momenti più critici della nazione, dare il senso dell'equilibrio e della difesa dei principi sociali,consolidandoli nella civiltà cristiana". A Nenni, dunque, al "caro Nenni", si rivolgeva, in primo luogo, quella replica degasperiana, intessuta di spunti amaramente ironici, di aspre contestazioni polemiche e di quasi represse manifestazioni di simpatia.

L'aveva iniziata osservando che delle vicende della crisi Nenni aveva "presentato una specie di storia romanzata, che ha bisogno di molte rettifiche"; aveva poi ribadito che di storie romanzate il leader socialista ne aveva prodotte addirittura due in contraddizione:

"Nenni è qui venuto con voce di usignolo a predicare la concordia e la pace. Ma sull'Avanti! ha fatto una politica contraria, ha detto che 'bisogna tenere nettamente diviso il paese in due blocchi, perché questa è la dialettica assolutamente necessaria alla democrazia'". Era andato a pescare una citazione nenniana di Marx, sulla necessità di pungolare dopo una rivoluzione il partito vincitore, e l'aveva così commentata:

"Non è piacevole questa sensazione di avere sempre in Nenni ed amici dei pungolatori, come se noi fossimo dei buoi. Caro Nenni, quando Marx scriveva quello a cui ti riferisci come ad un vangelo, erano altri tempi, e il socialismo era in marcia per conquistare, per vincere, per rovesciare lo Stato borghese; ma oggi nella Repubblica, di cui voi siete parte, non può essere tollerabile lo stesso metodo. Ora voglio dire a Nenni che è stato così gentile, del resto, così sentimentale, che quando parla qui io dimentico quello che scrive e quasi lo abbraccerei; ma disgraziatamente scrive".

Aveva ancora risposto a Nenni a proposito di supposte manovre clericali in occasione della crisi, con tanto di citazione dei nomi di due eminenti ecclesiastici:

"Devo dire la verità che queste personalità mi sono ignote! [il che, voglio aggiungere, era abbastanza improbabile] Ma dove ha pescato queste notizie? Evidentemente nell'Annuario Pontificio, copiandole a caso".

E rivolgendosi ancora a Nenni aveva concluso:

"Amico Nenni, ho cominciato con te ed è fatale che con te termini. Hai fatto un cenno alla maggioranza protestante negli Stati Uniti. Io ho interrotto perché mi è dispiaciuto che tu ti domandassi che cosa quei protestanti pensassero di un governo di clericali,di preti, per quanto credo che molti che sono qui [nel governo] non appartengano alla mia 'parrocchia'. Badate che inAmerica - e io l'ho visto - dinanzial monumento di Jefferson, che è il Mazzini americano, ho visto affermata una fede che ci accomuna: credere in Dio e nella libertà".



Non so quanto consapevolmente, De Gasperi finiva così uno dei suoi più brillanti discorsi parlamentari rilanciando il motto che nel 1830 il prete francese Lamennais aveva voluto impresso sulla testata del suo giornale cattolico-liberale, l'Avenir, "Dieuet la liberté". Era il nodo rimasto a lungo irrisolto intorno al quale si era come condensata, in maniera tragicamente contraddittoria, la storia europeadel XIX e del XX secolo, e certo non solo quella dei movimenti politici d'ispirazione e base cattolica:

una storia da cui De Gasperi, messo di fronte alla responsabilità dei cristiani nell'avvento dei regimi totalitari, aveva saputo trarre molte lezioni, facendone la sostanza primordiale della sua visione politica.

1 commento: