A dispetto della pressione fiscale e della spesa pubblica, la Svezia svetta rispetto a tutti gli altri indicatori di libertà economica
di Carlo Stagnaro
Da Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2010
Miracolo svedese? Nel mezzo della crisi del debito pubblico, la Svezia alza l'asticella delle aspettative. Il ministro delle Finanze, Anders Borg, durante un infuocato dibattito parlamentare ha previsto, nel 2010, un tasso di crescita economica del 3,3% (3,8% nel 2011), contro il 2,5 atteso, e un calo della disoccupazione all'8,9% (8,4% l'anno prossimo), contro il 9,2% del forecast precedente. Questa concessione alla speranza arriva dopo la decisione della Banca centrale svedese di aumentare il tasso di sconto di un quarto di punto.
Borg ha disegnato un percorso di completo rientro dalla crisi in una manciata di anni: crescita economica sostenuta (tra il 3 e il 4 per cento) e graduale riassorbimento della disoccupazione, che entro il 2014 dovrebbe tornare sotto il livello di guardia del 6 per cento.
Non è detto che sia un eccesso di ottimismo. Negli ultimi dieci anni, mentre l'Italia cresceva nell'ordine dell'1 per cento all'anno e l'Europa del 2 per cento, la Svezia ha corso a un tasso superiore al 3 per cento. Questo risultato – dentro cui Borg rinviene la possibilità di una rapida ripresa – è tanto più sorprendente se si pensa che la costruzione di un pesante welfare state aveva, negli ultimi trent'anni del Ventesimo secolo, pesantemente impattato il successo scandinavo, facendo precipitare Stoccolma dalla quarta posizione nell'indice di prosperità nel 1970 alla quattordicesima nel 2003. Oggi il Legatum Institute assegna alla Svezia il terzo posto: cosa è cambiato?
Una possibile risposta viene guardando altri due indici. Uno è quello della libertà economica pubblicato ogni anno dalla Heritage Foundation, che nel 2010 assegna al paese il ventunesimo posto, con un punteggio del 72,4 per cento. Può apparire non esaltante – o almeno insufficiente a spiegare l'undicesimo Pil pro capite al mondo – ma bisogna entrare dentro le variabili considerate dal think tank conservatore: si scoprirà allora che, a dispetto della cattiva performance per pressione fiscale e spesa pubblica, la Svezia svetta rispetto a tutti gli altri indicatori, in particolare libertà d'impresa e protezione dei diritti di proprietà (entrambe sopra il 95 per cento). Una lettura analoga viene scorrendo i risultati dell'Indice della libertà di intrapresa (PDF), elaborato dall'Istituto Bruno Leoni per il Centro studi di Confindustria, che assegna alla Svezia un punteggio complessivo del 59 per cento, ma enfatizza un ragguardevole livello di libertà d'impresa (81 per cento) e libertà dalla regolazione (74 per cento), tra i più alti in Europa.
Quello che emerge, dunque, è la peculiarità svedese di sostenere un massiccio (ma decrescente nel tempo) sforzo redistributivo attraverso la creazione di un contesto "ultramercatista" per le imprese. In altre parole, Stoccolma ha capito che, per essere ridistribuita, la ricchezza deve prima essere creata; e, perché sia creata, bisogna che lo Stato stia fuori dai piedi il più possibile e lasci fare agli "spiriti animali" del mercato.
Il ministro Borg, intervistato dal Financial Times lo scorso 9 giugno, ha rivendicato i meriti del governo di cui fa parte, senza tuttavia rinnegare gli sforzi precedenti, a partire dalla dura terapia di rigore contabile che ha portato in pareggio (pre-crisi) un bilancio in deficit strutturale di 12 punti di prodotto interno lordo. Il tutto si sposa a un set di poche e semplici regole, che proprio in quanto poche e semplici sono tendenzialmente rispettate di più e meglio. A Borg ha risposto, un po' piccato, l'ex governatore della Riksbank, Lars Wohlin, il quale ha evidenziato il ruolo fondamentale della politica monetaria rigorista, che ha dato a imprese e banche gli incentivi corretti e li ha trattenuti dal cadere nella spirale del sovraindebitamento.
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