venerdì 18 giugno 2010

Non è tempo di cogestione

Giulio Sapelli
Corriere Economa - 14-09-09
Ma ogni scelta non è imposta ma è frutto di un processo di sviluppo tra le opposte esigenze di datori e prestatori d' opera

La discussione recente sui temi della gestione non conflittuale delle imprese, uso questo termine non a caso, come si vedrà, si è levata in alto come una sorta di mongolfiera piena d' aria nell' orizzonte della crisi. Fatto positivo, se si pensa che, generalmente, le parti sociali si orientano a condividere le proprie sorti allorché la ripresa economica è un obbiettivo inderogabile. Così è stato per la fondamentale e imprescindibile esperienza della Mitbestimmung tedesca, la cosiddetta cogestione, che ha infatti garantito una più accelerata accumulazione del capitale e una dispiegata produttività del lavoro. Tutte le formule di gestione non conflittuale si sono sempre in qualche misura riferite al modello tedesco. Ma spesso impropriamente, dimenticando che esso ha alla sua base un modello dualistico e non monistico della rappresentanza del lavoro. I dipendenti che fanno parte del Consiglio di sorveglianza (che affianca quello di gestione formato dai manager), infatti, non vengono eletti o nominati dai sindacati, ma dai lavoratori medesimi in elezioni dirette che si svolgono nel luogo di lavoro. Il sindacato può influenzarle, ma non organizzarle e quindi rimane un potere separato nell' azienda e libero di dispiegare il suo contrattualismo. Ecco un primo punto che qui in Italia si dimentica. Per funzionare, queste forme di condivisione hanno bisogno del modello dualistico: da una parte i sindacati contrattano, dall' altra i lavoratori tutti, iscritti o non iscritti ai sindacati, partecipano. Penso che se così si facesse anche gli imprenditori italiani dismetterebbero le loro diffidenze verso queste problematiche. La cogestione diverrebbe, come deve essere, a parer mio, oggetto delle relazioni interne tra datori e prestatori d' opera e non un' articolazione delle relazioni industriali, che si svilupperebbero in un clima di collaborazione e non di conflittualità. È questo il problema. Un sindacato partecipativo, infatti, non esclude il conflitto, anzi lo include nel suo Dna, ma come ultima istanza di confronto e non strumento di rottura della pace sociale. Un sindacato antagonistico non può essere partecipativo in alcun modo e non può ammettere la rappresentanza dei lavoratori separata da quella sindacale e, tanto meno, la regolazione tra le parti diretta a mitigare il conflitto. In questa luce possiamo comprendere come sia improponibile una forma di condivisione ai destini dell' impresa in un momento di crisi economica se essa non è collegata strettamente a una politica anticiclica generale e a una struttura contrattuale - le relazioni industriali - che incentivi e non reprima la partecipazione sindacale. Se guardiamo all' Italia, si può dire che informalmente una forma spiccata di condivisione agisce già nelle miriadi di piccole imprese, costituendo una delle garanzie di successo di queste imprese medesime. Tutt' affatto diverso il tema della partecipazione azionaria. Qui siamo dinanzi a un' armonica che suona musiche diversissime: dagli Usa dove si mescola alla valorizzazione dell' azionista tout court , all' Argentina con le fabbriche recuperate non solo cooperative ma ad azionariato diffuso, sino alla tradizione francese dell' azionariato operaio o all' azionariato dei dipendenti promosso in tutto il mondo da loro medesimi con autonome associazioni, sino, infine, ai progetti di azionariato diffuso sostenuto dalle organizzazioni sindacali con venature anticapitalistiche, che in Svezia ebbero non poca fortuna. Nel dibattito attuale si dimentica tuttavia una cosa: tutte queste esperienze di azionariato non scaturiscono dallo stato leviatano, ma dal vivo della realtà concreta dell' incontro e dello scontro, secondo alterni cicli, tra datori e prestatori d' opera, senza bisogno di leggi, leggine, interferenze partitiche sui sindacati dei lavoratori e sulle associazioni imprenditoriali. Di questo occorrerebbe aver contezza maggiore prima di levare alte le mongolfiere e in tal modo riflettere prima di fare proposte di qualsivoglia forma di condivisione dei destini dell' impresa. Condivisione possibile e auspicabile solo nell' articolazione e nella libertà contrattuale, perché altrimenti il pluralismo del lavoro e nel lavoro verrebbe colpito con un vulnus pericolosissimo. Non abbiamo bisogno di altri statalismi, ma di energie rinnovate, anche e soprattutto nella condivisione della vita economica, per superare la crisi.

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