Per rientrare dal debito serve più crescita. Per crescere servono investimenti
di Alberto Mingardi
Da Il Riformista, 6 giugno 2010
In Usa, quando lo Stato è arrivato a porre dei limiti alle remunerazioni degli amministratori di imprese private, ciò avveniva a causa dei bail-out. Ai manager usciti dalle secche grazie a robuste iniezioni di quattrini del contribuente veniva chiesto un atto di contrizione. Proprio per aggirare lo scandalo e lo sdegno di elettorati affezionati all'economia di mercato, la classe politica riteneva opportuno dare un segno. Lo Stato non entrava in una compagine azionaria per restarci. Faceva un sacrificio e chiedeva sacrifici. Era una sorta di "provvidenziale iattura": al management veniva chiesto di pagare in prima persona il prezzo del salvataggio. Ci sono state polemiche: abbassare lo stipendio dei manager significava rendere più difficile reclutarne di nuovi, e di bravi, com'è necessario per aziende in grande difficoltà. Ma, grosso modo, quello era il contesto.
In Italia invece si vanno ora a regolare i compensi degli amministratori all'ombra non della crisi finanziaria, ma di quella del debito. Per ragioni di finanza pubblica. Il contenuto della norma è ancora oscuro, e i giornali hanno dato conto di divergenze d'interpretazione. Se il taglia-compensi dei cda valesse solo per gli enti pubblici, ci sarebbe poco da dire. È indubbio che non siano i consigli d'amministrazione le voragini di spesa. Però, siccome prima o poi bisognerà infilare il bisturi nella carne viva, pretendere che chi sta al vertice dia il buon esempio non pare folle. Ci sono controindicazioni. Non si paga solo la competenza, ma anche la responsabilità. Se la remunerazione cala, è meno conveniente investire il proprio tempo - e questo è tanto più vero quanto più valore ha il tempo delle persone coinvolte. Parallelamente, diminuisce la disponibilità a fare scelte controverse e impopolari. I cda sottopagati possono diventare cda di zombie: solo ordinaria amministrazione, e nessuna decisione difficile (a cominciare dai tagli).
E se la norma valesse anche per le società di diritto privato che hanno ricevuto, in una forma o nell'altra, aiuti pubblici? La logica è solo apparentemente congruente a quella americana. Se parliamo di banche, anche in Italia è stato confezionato uno strumento d'intervento straordinario: i Tremonti bonds. Se ne sono avvalsi solo quattro istituti di credito: Banco Popolare, Bpm, Mps e Credito Valtellinese. Le due grandi banche, UniCredit e Intesa, hanno deciso di seguire altre strade. Non vorremmo ricordarci male, ma quando i Tbonds furono introdotti l'accoglienza dei banchieri fu talmente fredda, che qualche maligno arrivò a immaginare che due delle banche che ne avevano fatto richiesta (Bpm e Creval) fossero state mobilitate per salvare la faccia al Tesoro. Sarebbe davvero paradossale, se gliene venisse una polpetta avvelenata.
Non solo. Francesco Forte ebbe a scrivere giustamente che i T-bonds erano «una misura alternativa all'azionariato pubblico». Una misura alternativa: servivano a non mettersi nel pasticcio in cui s'erano ficcati gli americani, con lo Stato che diventato, azionista, da azionista metteva il becco negli schemi di remunerazione.
Se invece parliamo di imprese, la situazione si complica ulteriormente. Per quanto alcune siano state tagliate, le teste dell'idra dell'imprenditoria pubblica o para-pubblica abbondano sempre. Alcune producono utili, per lo Stato sono un segno più: la partecipazione in Enel e Eni. Altre potranno produrre utili, ma comunque beneficiano di sussidi di vario tipo: come le Poste. Dove si tira la linea? Deve tirare la cinghia pure chi frutta quattrini all'erario? Moltissime imprese private beneficiano a vario titolo di "aiuti" e "aiutini", nei settori i più diversi (tutto il business delle ammiratissime energie rinnovabili, per esempio, è sussidiato). Anche in questo caso, quand'è che scatta la tagliola? Fatta la legge, gabbato lo frate. Il presidente dell'ordine dei commercialisti Siciliotti ha detto che "stabilire un costo zero per i consiglieri è una sciocchezza per definizione. Chi lo accetterà vuol dire che verrà pagato in un altro modo". Il danno dell'affermazione del principio sta anche nelle difficoltà e nei bizantinismi cui si dovrà ricorrere per aggirarlo.
Ovviamente, a monte di questo provvedimento sta, come si dice, un "ragionamento politico". Lo stesso su cui si basa l'addizionale per bonus e stock option. Lo stesso che fece Rifondazione quando per la finanziaria del 2007 tappezzò Roma con manifesti su chi stava scritto: "Anche i ricchi piangano".
Qui c'è un problema ancora più grosso dell'interferenza con la libertà delle imprese. Massimo Mucchetti ha notato che un'imposta aggiuntiva del 10% sui redditi sopra i 200 mila curo darebbe «un gettito di 1,1 miliardi l'anno». Ora, una tassazione del 100% per il 2010 aiuterebbe senz'altro a sistemare i conti pubblici. Ma forse, dico forse, non essendo pagata la gente smetterebbe di lavorare. E dal momento che non avrebbe un quattrino da spendere, nessuno potrebbe acquistare ciò che gli altri producono, e quindi faremmo tutti bene a smettere di lavorare.
Per rientrare dal debito serve più crescita. Per crescere servono investimenti. Le persone i che hanno grandi disponibilità di solito non le tengono nel deposito di Paperone, ma comprano case, macchine, costruiscono capannoni, eccetera. Stratassarli porterà i più giovani e svegli di loro a emigrare, e gli altri a lavorare di meno, e giustamente, perché uno avrebbe la legittima ambizione di goderseli lui i frutti del suo lavoro. Per citare Tremonti in un Porta a porta dello scorso gennaio, "il posto giusto per i soldi è nelle tasche dei cittadini".
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