mercoledì 9 giugno 2010

Il capitalismo post sovietico

GLI IMITATORI FRETTOLOSI DEL MERCATO
di Sergio Romano
Corriere della Sera
6 giugno 2010

Il copione ungherese assomiglia a quello greco. In ambedue i Paesi l’opposizione (socialista in Grecia, liberal- conservatrice in Ungheria) vince le elezioni e si accorge di non potere mantenere le promesse fatte durante la campagna elettorale. Per scrollarsi di dosso la responsabilità dei sacrifici che dovrà chiedere ai suoi connazionali, denuncia le colpe dei predecessori; anche se una tale tattica allarma le Borse, complica la gestione della crisi e costringe il governo di Budapest a correggere rapidamente, per tranquillizzare i mercati, la prognosi negativa di uno dei suoi esponenti. Dei due malati l’Ungheria, con un debito pubblico pari al 78% del prodotto interno lordo, è meno grave della Grecia (115%) e presenta per noi il vantaggio di non essere membro dell’eurozona. Ma le sue difficoltà potrebbero preannunciare quelle di altri Paesi che furono satelliti dell’Unione Sovietica. L’economia polacca, nonostante la crisi, continua a crescere e i Paesi baltici sono capaci di una forte disciplina sociale. Ma in ciascuno degli ex satelliti approdati sulle spiagge dell’Ue nel 2004 vi è un capitalismo post-sovietico frettolosamente costruito dopo il crollo del muro. Esiste il rischio di una crisi regionale, estesa soprattutto ad altri Paesi dell’Europa danubiano-balcanica?

Quando ritrovarono la loro libertà, i vecchi satelliti, dovettero smantellare l’economia statale del periodo comunista e scegliere per il loro sviluppo un nuovo modello economico. Scelsero, come accade in queste circostanze, quello dei vincitori e cercarono per quanto possibile di imitare l’Occidente in una fase in cui la nuova ortodossia economica era quella predicata dai «mercatisti» anglo-americani e il «manuale del buon capitalista» era quello del Fondo monetario internazionale. Occorreva privatizzare, liberalizzare, chiudere le industrie antiquate, abbandonare attività che erano utili soltanto per gli scambi del Comecon, il mediocre equivalente comunista del Mercato comune. Ma non era possibile ignorare i quadri tecnico-amministrativi della vecchia economia, l’apparato burocratico dello Stato, i servizi di sicurezza, i minatori, i contadini, gli operai delle acciaierie, delle industrie belliche e dei cantieri navali, vale a dire quella massa di salariati, assistiti e sussidiati che il regime comunista aveva accumulato nel corso dei decenni precedenti.

Il risultato di queste contrastanti esigenze è diverso da uno Stato all’altro e riflette le condizioni economiche, sociali, culturali dei singoli Paesi. Ma in quasi tutti gli ex satelliti abbiamo assistito agli stessi fenomeni: nuove ricchezze, troppo frettolosamente conquistate, una nuova criminalità, una più estesa corruzione e partiti populisti, spesso eredi delle forze nazionaliste e razziste che esistevano nella regione prima della Seconda Guerra Mondiale. Vi sono stati anche molti progressi che non sarebbe giusto sottovalutare. Ma la spesa pubblica è stata complessivamente superiore alle possibilità dei singoli Paesi e le loro economie, soprattutto nell’area danubiana, sono fragili e vulnerabili. Ancora una volta, come nel caso dell’adesione greca all’eurozona, dobbiamo chiederci se non sarebbe stato meglio realizzare l’allargamento con altri tempi e altre formule. Jacques Delors, presidente della Commissione sino all’inizio degli anni Novanta, pensava a una confederazione europea nella quale avrebbero potuto convivere, con norme diverse, il nucleo occidentale e quello dei nuovi arrivati. Ma gli uomini politici non gli dettero retta.

Nessun commento:

Posta un commento