venerdì 1 gennaio 2010

Consigli da Roma antica all'imperatore Barack I

Paul Kennedy

31/12/2009

da il Sole 24 Ore

Governare significa scegliere. Questo era il famoso e ironico adagio dei diplomatici francesi del XVII e XVIII secolo. Per come la vedevano loro, in un mondo in cui regnava l'anarchia nei rapporti internazionali, scegliere delle priorità non era facile. I governanti degli Stati nazionali, perfino quelli che sembrano forti e privilegiati, spesso si vedono costretti a prendere delle decisioni difficili. Sarebbe meglio, dunque, ragionare fin dall'inizio su quanto impegno ci si può assumere. Un principe fresco di trono, o il nuovo capo di un governo parlamentare, farebbero meglio a non intraprendere troppe riforme sul fronte interno e contemporaneamente dedicarsi a rincorrere demoni stranieri in altri paesi. La decisione di fare marcia indietro, o quantomeno ridurre sostanzialmente l'impegno, rispetto a una politica ereditata dal precedente governo può rafforzare la leadership, dando più spazio ed energia per portare avanti altri piani ambiziosi. Sceglietevi le vostre battaglie, e i terreni su cui combattere.

Ho ripensato spesso a questo prudente principio di massima di non combattere su troppi fronti nello stesso momento durante il primo anno dell'amministrazione Obama. Davvero il presidente crede di poter far passare riforme importanti nel campo della sanità, dell'istruzione, dei cambiamenti climatici, delle finanze pubbliche e delle tasse, e allo stesso tempo di vincere in Iraq in Afghanistan? Che succede se disperdendo le proprie energie su più fronti l'amministrazione americana ottiene il triste risultato di non essere forte da nessuna parte e debole - o compromessa, o vittoriosa soltanto a metà, o perfino perdente - dappertutto?

A questa spiacevole considerazione generale sui rischi di impegnarsi ovunque senza riuscire da nessuna parte, si dovrebbe aggiungere una preoccupazione più specifica, relativa alla escalation militare di Obama in Afghanistan.

Ci sono buone ragioni militari, morali e strategiche dietro alla scelta della nuova amministrazione di sostenere il traballante governo afgano e mettere sotto pressione i Talebani e al-Qaeda, aumentando le operazioni militari in questa regione.

È chiaro che il presidente si è consultato ampiamente prima di procedere con questa politica di escalation, e ha riflettuto personalmente, a lungo e con coscienza, su questa decisione sgradevole. Ma perfino quest'uomo di straordinaria intelligenza non si è posto un'ulteriore domanda, più importante, che a una persona preparata sulla storia militare e sulla strategia sarebbe venuta naturale.

La domanda è questa: esistono operazioni militari che le Grandi Potenze, perfino le più grandi in un qualunque periodo storico, non dovrebbero intraprendere? Ci sono delle campagne che non vale la pena di combattere, perché il terreno rende la conquista impossibile (o perché il coinvolgimento di così tante truppe per gestire operazioni così insidiose rendere più difficile assolvere ai propri obblighi altrove)? La potenza numero uno deve armare ogni confine, deve essere forte ovunque? Non ci sono limiti?

La storia ci fornisce un ricco campionario delle più pragmatiche fra le Grandi Potenze che in certe occasioni hanno ammesso di saper riconoscere i propri limiti, mentre quelle intransigenti e spinte dalle ideologie continuavano a dichiarare: «Mai darsi per vinti». «Mai darsi per vinti»è un atteggiamento che ha senso se un feroce nemico piomba su di voi con l'intento di uccidere o imprigionare tutta la vostra gente. I sovietici avevano dovuto combattere una guerra totale contro la Germania nazista, dopo la brutale invasione del giugno del 1941; era una questione di vita o di morte. Ma il problema diventa più sfumato se si tratta di un impegno a combattere in territori stranieri. Vale davvero la pena di proseguire questa campagna?

La Spagna di Filippo II e i suoi successori cercarono, addirittura per 80 anni, di sopprimere i ribelli protestanti in Olanda e in Zelanda, malgrado il fatto che i canali della bassa Schelda rendessero incerta una vittoria basata sui combattimenti di terra. Gli inglesi abbandonarono i loro sforzi di controllare l'America perché il puro e semplice problema delle distanze e la topografia della valle dell'Hudson e della regione dei monti Appalachi rendevano impossibile, nel 1781-1783, mantenere un controllo imperiale, almeno al prezzo che Londra (in guerra all'epoca con Francia, Spagna e Paesi Bassi) era disposta a pagare. Dopo tre guerre successive in Afghanistan, i britannici hanno rinunciato definitivamente a cercare di controllare quel terreno impossibile. Il poderoso sforzo compiuto dall'esercito imperiale giapponese tra il 1937 e il 1945 per conquistare la Cina naufragò contro gli scogli della distanza, del clima e della logistica. I molti tentativi della stessa Cina, nel corso dei secoli, di punire i vietnamiti non portarono quasi mai a nulla. A volte, non ne vale la pena. A volte, non si può fare.

Imperi intelligenti e duraturi, come l'Impero Romano, erano consapevoli dei propri limiti e raramente li oltrepassavano. Dopo aver perso tre intere legioni nel folto delle foreste tedesche, Augusto e i suoi successori decisero di istituire una frontiera lungo la riva occidentale del Reno. Il Danubio a sua volta diventò la barriera contro le tribù della Dacia; la Grande pianura ungherese veniva lasciata alle irsute popolazioni barbare. Il Galles era poco attraente e la Scozia poco redditizia, e le legioni romane raramente si avventuravano in quelle terre. La costa nordafricana era ricca di risorse, ma il Sahara, a sud, era una barriera invalicabile. A est della Palestina la situazione era precaria e l'Impero Persiano era un cliente troppo grosso per essere sfidato, a meno di non portare tutte le legioni fino alle rive dell'Eufrate e dell'Oxus (l'odierno Amu Darja), come fece Alessandro. I romani non erano così stupidi. Furono loro stessi a fissare i limiti della propria influenza. Per rimanere forti complessivamente, non avevano esitazioni quando si trattava di scegliere dove rimanere e combattere e dove non avventurarsi mai più. Fu questo (insieme ad altri fattori) ad aiutare l'Impero Romano a durare per 500 anni.

Che insegnamenti possono fornire questi precedenti storici che abbiamo sommariamente descritto per la potenza numero uno dei giorni nostri? Non granché. Può darsi che la battaglia per il controllo dell'Afghanistan sia effettivamente importantissima, come, per fare qualche esempio, Stalingrado, Guadalcanal o El Alamein; che si debba vincere questa battaglia per neutralizzare i riferimenti storici alla mancata penetrazione (in profondità) dei romani in Scozia. Può darsi, come sostengono i neocon americani e diversi opinionisti di tendenze più moderate, che la natura stessa dell'odierna minaccia terroristica, violenta, asimmetrica, transnazionale, sia tale da rendere doveroso andare a sradicarla ovunque per il mondo. Le frontiere romane lungo il Reno e lungo il Danubio, o il Vallo di Adriano, non sono sufficienti. Non al giorno d'oggi, quando i terroristi possono arrivare fino a noi. Dobbiamo andare fino da loro. «Niente tentennamenti», come diceva Margaret Thatcher.

Anche se accettiamo il concetto che la lotta al terrorismo è una questione transnazionale, è ragionevole rimanere scettici rispetto all'idea di andare a combattere in un terreno dove l'Occidente perde gran parte dei suoi vantaggi militari e tecnologici. Guardando le foto dei terreni dirupati a ovest di Herat, o leggendo i resoconti delle tante incursioni in Afghanistan da parte di eserciti stranieri nel corso della storia, è evidente che ostacoli fisici come giungle, paludi e montagne scoscese mettono i combattenti su un piano di parità. La mia impressione (di uno che guarda da fuori, lo ammetto) è che i combattimenti in montagna nei mesi invernali trasformeranno questa guerra in un conflitto soldato contro soldato. Quando gli elicotteri non possono volare per le tormente e gli Humvee rimangono bloccati in cumuli di neve alta tre metri, le differenze si attenuano. Le truppe americane, britanniche e degli altri Paesi della coalizione lo sanno fin troppo bene. Non è una questione di morale della truppa, è una questione di senso pratico, di combattere un nemico sfuggente che sceglie quando resistere e combattere e quando scivolare via. Un ufficiale di basso grado dei marines recentemente mi ha raccontato l'ultima, sferzante battuta che circola in Afghanistan: «Gli americani hanno gli orologi, ma noi abbiamo il tempo». È un pensiero che fa rabbrividire.

Ora che il mondo e l'amministrazione Obama si apprestano a entrare nel 2010, non è assurdo o allarmista esprimere preoccupazione per l'incurabilità della piaga afghana.

In altri campi, alcuni dei nostri indicatori globali fanno un po' meno paura di quanta ne facevano un anno fa. L'economia internazionale ha arrestato la sua caduta precipitosa, e in alcune parti del mondo sta mostrando incoraggianti segnali di ripresa. L'accordo sul clima di Copenaghen è stato un mezzo fiasco, ma ha spinto i Governi mondiali un passettino più avanti nella giusta direzione. Il sistema bancario è stato salvato, anche se a un prezzo pesante per i contribuenti. Nell'America Latina, Hugo Chávez continua con i suoi gesti antiamericani, ma appaiono sempre più futili. L'Asia orientale sembra relativamente stabile (anche se forse è meglio non dirlo ad alta voce). Dunque ci sono fondate ragioni perché gli Stati Uniti, in questo momento, dedichino forte attenzione alla complicata quadriglia composta da Iraq, Iran, Afghanistan e Pakistan.

Ma il seccante interrogativo permane: andare a combattere in alta quota e in mezzo alla neve, sui passi innevati del Pashtunistan, è una strategia fattibile? Oppure l'amministrazione Obama si ritroverà, come moltissimi altri Governi nel corso della storia, a cercare di ottenere una vittoria irraggiungibile (o quantomeno, non riconoscibile come vittoria)? I talentuosi autori dei discorsi del presidente stanno già pensando ai testi alternativi che dovranno essere pronti per le elezioni di metà mandato del prossimo novembre, quando le nevi sommergeranno i passi di montagna del remoto Hindu Kush? Se non lo stanno facendo, farebbero bene a farlo.

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