Corriere della Sera
Massimo Mucchetti
23 dicembre 2009
Il debito pubblico italiano ha superato i 1800 miliardi di euro, pari al 117% del Prodotto interno lordo degli ultimi 12 mesi: due punti in più rispetto agli obiettivi del governo. Stiamo tornando ai primi anni Novanta. Eppure, questa volta non suona l’allarme. E non solo perché le agenzie di rating, che hanno appena declassato le obbligazioni dello Stato greco, sembrano preoccuparsi più del deficit annuale che del debito accumulato dalle pubbliche amministrazioni: deficit che in Italia cresce meno che altrove. La questione è più radicale.
Le banche centrali esortano a pensare all’exit strategy: a una strategia per ritirare gli aiuti all’economia finanziati con i denari dei contribuenti. Ma poi non mostrano alcuna fretta di chiudere l’ombrello di Stato sulla finanza, se è vero che le nuove regole, dettate dal Comitato di Basilea per scongiurare nuovi salvataggi, entreranno in vigore gradualmente a partire dal 2012. Come mai tale differenza tra ieri e oggi?
Per cominciare, va detto che allora l’Italia era sola: nessun altro Stato, tranne il Belgio, aveva un’esposizione simile alla nostra. Poi, il mondo considerava l’alto debito pubblico prova di inefficienza e corruzione, mentre giudicava segno di operosa fiducia il debito di famiglie e imprese. L’Italia, infine, voleva entrare nell’euro e perciò aveva accettato i vincoli dettati dalla Germania. Adesso, l’Italia non è più la pecora nera. Nei 40 Paesi dell’Ocse, in media il debito pubblico equivale al Pil. E negli Usa salirebbe al 135-140% se solo il Tesoro federale consolidasse le obbligazioni municipali e quelle delle agenzie nazionalizzate Fannie Mae e Freddie Mac; mentre nel Regno Unito supererebbe il 170% se il Tesoro di Sua Maestà contasse, come dovrebbe in base al Trattato di Maastricht e ancora non fa, anche il costo dei salvataggi bancari e i passivi delle banche nazionalizzate.
Il mondo ha scoperto a sue spese il vizio implicito nel debito delle famiglie, fatto per consumare molto più di quanto consenta il reddito, e nel debito delle imprese, acceso per esaltare il rendimento del capitale ben oltre i risultati operativi. Debito pubblico e debito privato formano un debito globale che va considerato. E la Grande Crisi ci dice che il rientro dagli eccessi sarà lungo e incerto: a metà 2007, prima della frana dei subprime, il debito globale americano era pari al 339% del Pil; adesso viaggia sul 370%. Secondo le rilevazioni dell’Ocse, l’Italia porta un debito globale pari ai quattro quinti di quelli americano e britannico. E fa parte di Eurolandia, dove i parametri di Maastricht vengono peraltro applicati con maggiore flessibilità.
Negli anni Novanta, l’Italia uscì dall’isolamento grazie alla caduta generale dei tassi, che rese meno oneroso il debito pubblico, e alla riforma dell’economia secondo gli schemi anglicizzanti che, come spiegò Michel Albert in Capitalisme contre capitalisme, stavano prevalendo anche nell’Europa renana: dunque pensioni più leggere, meno valore aggiunto destinato ai salari, privatizzazioni, apertura dei mercati finanziari, indebitamento delle famiglie. Alla vigilia del 2010, la Grande Crisi ci avverte che le armi degli anni Novanta hanno effetti collaterali negativi o sono spuntate. Exit strategy, dunque, ma verso dove?
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