lunedì 16 novembre 2009

ZILIANI “Uomo Politico”

di Mario Spezia
presidente prov.le Associazione Partigiani Cristiani – Piacenza
Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza
14 novembre 2009

Felice Ziliani nel suo secondo libro “Ribelli per amore…sempre” al capitolo dal titolo “Inizia il declino della classe politica “, a proposito del V congresso della Democrazia Cristiana tenutosi al Teatro San Carlo di Napoli dal 26 al 29 giugno del 1954 in cui era delegato, scrive:

” ….venni invitato da un gruppo di giovani uomini politici, tra l’altro quasi tutti provenienti dalla Resistenza, ad un incontro “informale” durante una pausa dei lavori congressuali al ridotto del teatro. De Gasperi aveva appena tenuto la sua stupenda relazione e lo avevo visto stanco (morirà improvvisamente nel mese di agosto NdR) e la riunione al ridotto (eravamo in una decina e ricordo che c’era anche il bravissimo comandante “Scrivia” di Novi Ligure- l’unico che conoscevo bene) era per me di difficile interpretazione; capii che c’erano gravi preoccupazioni per gli ex combattenti per la libertà , il Congresso non ne interpretava bene i postulati e sembrava prevalere la “destra”; occorreva dunque muoversi fra i delegati con decisione. Io lì, continua Ziliani, ero veramente l’ultimo in tutti i sensi ma pensando a De Gasperi così preoccupato eppure così chiaro nella sua esposizione, non ebbi esitazioni di sorta e senza indugi presi la parola per illustrare una “mozione d’ordine”. Chiesi di soprassedere e di seguire il Congresso e di comportarci liberi in coscienza nelle votazioni congressuali. Seppi, subito dopo, di aver fatto interrompere una delle prime riunioni della corrente chiamata “La Base”. A distanza di pochi giorni dalla fine del Congresso mi venne a trovare a Monticelli (da Roma) uno degli amici di quell’incontro per spiegarmi il tutto. Fu la mia più importante decisione politica; risposi serenamente a questo caro, bravissimo, onestissimo amico di notevole cultura (che assurgerà poi ai massimi poteri istituzionali), che non capivo la necessità di creare un movimento – anche se solo di idee – all’interno della Democrazia Cristiana, anche per il timore di perniciose divisioni. Passammo mezza giornata a discuterne perché lui non si persuadeva della mia riluttanza. Ma io dissi di no, guidato da una specie di sesto senso. Avevo già visto, in montagna, le disastrose conseguenze delle divisioni, e non mi fece velo l’aver capito che Mattei era l’ispiratore dell’operazione……la nostra preparazione era tale che neppure mi sfiorò il pensiero che imboccando quella strada ne avrei avuto un notevole beneficio politico nonché professionale”.

Credo che in questo episodio sia così ben espresso il più profondo e vero spirito che racchiudeva l’azione del Nato; disinteressata e sempre rivolta al bene comune, agli “altri”; nonostante egli stesso ricordasse, che all’epoca, era un giovane di trent’anni, sposato con due figli (che in totale diventeranno poi cinque) e dirigeva uno stabilimento della “esplodente” Agip di Mattei (non era affatto, il Nato, uno sprovveduto, si rendeva ben conto che il suo agire poteva anche cambiargli la vita, ma era un uomo libero, capace di scegliere senza condizionamenti; una Grazia ed una Forza che Gli veniva dalla Fede incrollabile).

Mio padre Giovanni (per anni vice direttore all’Agip al suo fianco nonché fraterno amico) in una nota a lui indirizzata in forma riservata in data 15 marzo 1984 rispondendo alla lettera di commiato che il Nato aveva inviato a tutti i suoi collaboratori al momento del pensionamento, ripercorrendo alcune tra le più significative fasi del passato Gli scriveva tra l’altro:

“… queste considerazioni sono solo un aspetto di una scelta ben più decisiva e globale, la cui coerente testimonianza ha richiesto l’assunzione di posizioni dure e scomode…. Mi riferisco alla decisione che fu Tua e da noi pienamente condivisa, di non accogliere gli inviti e le sollecitazioni ad essere uno dei protagonisti delle vicende che portarono, nel corso del V Congresso Nazionale D.C. a Napoli nel Giugno 1954, all’avvio dell’opera di irreversibile spaccatura interna del Partito con la fondazione, di fatto, dei gruppi di potere. Proprio quei gruppi che trovarono una loro prima sanzione ufficiale nel successivo VI Congresso di Trento del 1956 e diventarono sempre più numerosi e spregiudicati nel conseguimento del potere interno in funzione di quello esterno e viceversa. Quella fu la decisione che riaffermò la medesima scelta di campo, già operata con la partecipazione alla lotta di liberazione. Fu anche la decisione che costituì senza dubbio la linea discriminante per un successivo atteggiamento negativo del vertice, quando dopo poco tempo ha fatto mancare l’appoggio per il conseguimento di una adeguata rappresentanza politica; così come ritengo che abbia finito per pesare in modo tutt’altro che secondario, anche sulle successive decisioni per una Tua più giusta collocazione nei quadri dell’Azienda. Gli avvenimenti di questi ultimi anni ed, in modo accentuato, anche degli ultimi mesi, hanno detto che hai avuto ragione. Queste amare considerazioni, caro Nato, non cambiano certamente le ragioni della nostra scelta di allora, ma anzi ne confermano ed accrescono la validità. Nel riconfermare con la stessa urgenza ideale il nostro impegno futuro, ci sostiene quindi la serena coscienza di un dovere, almeno in parte, certamente compiuto”.

Ziliani, dopo quella scelta del 1954, fu candidato alla Camera dei Deputati per due volte, sfiorò l’elezione ma non la conseguì mai (nel 1963 per pochi voti) e nonostante per trent’anni (dalla costruzione) dirigerà la Stazione Imbottigliamento GPL e il Deposito Carburanti di Fiorenzuola d’Arda, impianti (tra i maggiori in Italia) che arrivarono ad avere un organico di 250 unità e nel 1982 gestiranno una movimentazione di circa 4 miliardi di lire al giorno, non gli fu mai riconosciuto l’inquadramento da dirigente e andrà in pensione come un impiegato qualsiasi.
Ma non si rammaricherà mai delle scelte fatte, delle conseguenze personali patite, delle mancate promozioni o riconoscimenti; ne soffriva, certo, ma soprattutto per il venire meno nel Partito dell’ispirazione ideale e dello slancio resistenziale che metteva in dubbio il cammino di libertà, democrazia e giustizia così faticosamente messo insieme; e sentiva ancor più profondo il dovere del cristiano quale motore di questi ideali.

Scriveva infatti nel Suo libro allo stesso capitolo “Inizia il declino della classe politica”:

“……E’ proprio necessario “convertirci ”e cioè renderci conto che la strada che seguiamo è sbagliata. E per primi lo devono fare i cristiani, che ne hanno la preparazione anche remota e che possono fruire dell’inesauribile bagaglio del loro “carisma”. Ecco perché i più colpevoli di questa imperante vergogna siamo ritenuti noi. Se non altro perché non abbiamo saputo vigilare e prendere decisamente posizione alle prime avvisaglie. Ma ancor più perché ci siamo imborghesiti usufruendo a piene mani dei benefici della libertà……”.

E prosegue:

“ …….…fummo vigilanti durante il fascismo, nella Resistenza e negli anni felici della ricostruzione. Poi abbiamo abbassato la guardia. Poco a poco vennero a mancare gli alimenti che generosamente e per decenni ci aveva dato l’Azione cattolica, che ci mobilitava nello spirito e nell’azione. Venne meno in noi la predisposizione al “sacrificio”. Cominciammo a perdere i contorni del primario dovere del cristiano e cioè quello dell’evangelizzazione, che nella prima Azione Cattolica si chiamava apostolato. Non possiamo che cercare qui le premesse della “crisi”. E’ sembrato sufficiente cercare l’onestà personale. E troppi, onesti e capaci, tirarono i remi in barca già agli inizi degli anni ’70; quanti uomini esemplari hanno lasciato il partito e la politica quando cominciarono a comparire le prime ombre. Così facendo, oltre a dimostrare di non avere coraggio, si è dato spazio al declino morale. Occorreva restare, piantare i piedi, ribellarsi, ma mai andarsene………”.

Atteggiamento che Ziliani ha sempre tenuto nella Sua vita; la continua e coerente testimonianza di valori ed ideali praticati ovunque si trovasse; a cominciare dalla politica quale luogo primario per la costruzione della società e del futuro; un traguardo faticosamente raggiunto e da preservare ad ogni costo nella convinzione che la Resistenza non finisce mai perché la democrazia non è sufficiente conquistarla una volta per tutte ma va tenuta viva e riaffermata in continuazione perché è un bene ed un patrimonio che con il tempo tende ad affievolirsi ed a scomparire; per questo è necessario un ricambio generazionale che senta questi valori come propri e sappia sempre rinverdirli e testimoniarli alla luce e sull’esempio di questi protagonisti e testimoni esemplari della rinascita della democrazia e della libertà che non si sono mai arresi o avviliti di fronte alle avversità ma hanno saputo cogliere, anche con il passare del tempo, l’attualità di un messaggio.

Come Ziliani scrive nell’introduzione al Suo secondo libro (siamo a metà degli anni ’90):

“…………non ho alcuna remora a dichiarare che in me c’è l’entusiasmo di un tempo, lo stesso spirito che ha accompagnato molti nell’entusiastica cavalcata di questi ultimi decenni. E di ciò ringrazio la Provvidenza. Io continuo a ripetere che si muore giovani anche se si campa cent’anni quando in noi c’è l’amore. Ora lasciate che vi dichiari, cari lettori, che si può morire “ragazzi” quando l’entusiasmo, frutto di profonde convinzioni, ci da la forza, l’ardire, la trasparenza propria dei giovani… e se volete, anche un pizzico della loro spregiudicatezza e del loro “stupore”! Questo bagaglio è stato indispensabile anche per scrivere “Ribelli per amore…sempre” in un momento tanto difficile per il Paese...”.

La forza e la convinzione che derivano dalla Fede; sarebbe facile così a prima vista confondere Ziliani per un bigotto; per uno come Lui che la mattina dell’8 dicembre 1944, mentre con alcuni partigiani della “Ursus” cercava di raggiungere Morfasso per ricongiungersi con il comandante Prati che stava preparando una controffensiva per vendicare gli amici caduti pochi giorni prima al Passo dei Guselli, sentendo il suono festoso delle campane, non può resistere alla tentazione di fermarsi a messa a Sperongia.

Ricorda Ziliani nel Suo libro:

“……..una messa all’8 dicembre (festa della Madonna NdR), che tentazione! Che pazzia! Armati, in chiesa, in mezzo alla gente e in pieno rastrellamento! “Mamma pensaci tu!”. Credo non sia stato necessario comunicarci nulla, ma chi per devozione, chi per desiderio di riparo, chi per rompere l’isolamento e ricevere notizie, tutti avemmo insomma almeno una buona ragione da seguire. E ci ritrovammo alla chiesa, ed entrammo dalla porticina vicino al campanile. Era gremita. Non ricordavo di aver mai visto un posto talmente pieno di gente. C’era il caldo della calca, l’odore caratteristico delle chiese di montagna. Tutto quanto ci confortava, e in quei frangenti ci sembrava di essere quasi al riparo da ogni pericolo. Non dimenticherò più la messa di quella mattina. Quando uscimmo, ancora per impervi sentieri, non c’era più nevischio. Pioveva forte, ma non faceva freddo. Era come se in me si fosse placata una tempesta, e credo che anche gli altri si sentissero sereni, fiduciosi, sicuri e pronti ad affrontare anche la più terrificante visione di morte…..”.

Ziliani è di quella generazione cresciuta nell’Azione Cattolica e permeata di pura e viva fede che ben sa distinguere la sfera personale di religiosità con la sfera pubblica necessariamente aperta alla visione laica; nella certezza che la traduzione confessionale della politica crea disastri, porta al fondamentalismo; con la chiara convinzione quindi di essere in politica non in quanto cristiano ma di essere in politica da cristiano. Lo Stato ideologico e fondamentalista, di qualsiasi dottrina sia permeato, non può essere uno stato libero e quindi democratico e quindi giusto.
Il concetto lo aveva già compiutamente espresso don Sturzo nel 1° Congresso Nazionale del Partito Popolare a Bologna nel giugno del 1919 :

“….è superfluo dire perché non ci siamo chiamati “partito cattolico”: i due termini sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, e abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione.....”.

Sulla scia di questi insegnamenti i giovani di quell’epoca avevano ben chiaro il proprio ruolo e la propria dimensione in ogni momento; e proprio per questa chiarezza quanta difficoltà avranno poi quando si troveranno, nel dopoguerra, a contrastare alcuni degli amici partigiani della lotta resistenziale che invece, loro si, avevano abbracciato una ideologia confessionale che voleva indicare, per ogni momento della vita ed per ogni occasione, quale fosse la scelta da effettuare: “quella decisa dal partito”; al punto che a molti era venuto il dubbio che, come scriveva Ermanno Gorrieri – già comandante delle Brigate Democristiane “Italia” nel modenese (col nome di battaglia “Claudio”) in seguito Ministro della Repubblica – la prima fase della Resistenza fosse stata una lotta iniziale:

“………per i comunisti…..da proseguire per la conquista del potere, per i cattolici-democratici, da proseguire per conquistare una società nuova, da realizzare in forme non violente e permeata di giustizia e libertà…”.

Era il dopoguerra: lo straordinario impulso unitario della lotta partigiana e dello spirito resistenziale che aveva permeato tutta la popolazione aveva lasciato il posto ad una contrapposizione feroce tra i due blocchi che si stavano delineando a livello mondiale: quello Occidentale contro quello Comunista. La Libertà contro un nuovo regime; sembrava scomparso lo straordinario slancio che aveva permesso la costruzione del nuovo Stato, ma non tutto era perduto: la straordinaria levatura dei padri della Repubblica aveva permesso la costruzione unanime del dettato costituzionale, una stupefacente somma di valori e regole in grado di superare il tempo e le divisioni e che sono riuscite a tenere in vita e unito a tutt’oggi il nostro Stato.
E allora ecco che sulle tante divisioni e sui tanti problemi che via via si sono affrontati, questi giovani della resistenza hanno saputo plasmare una nuova società, hanno saputo tenere insieme il nostro Paese, sempre animati dallo stesso spirito, dallo stesso entusiasmo, dalla stessa volontà di agire non per se stessi ma per il bene comune.
Anche passando attraverso momenti drammatici quasi quanto quelli della prima resistenza al nazi-fascismo.
In particolare i terribili momenti della lotta allo Stato ed alle Istituzioni messo in atto dalle Brigate Rosse negli anni ‘70 e culminate con l’uccisione di Aldo Moro.
Aldo Moro era diventato per Ziliani e i suoi amici, dopo De Gasperi, il punto di riferimento all’interno della Democrazia Cristiana incarnando quegli stessi valori coi quali erano cresciuti e si erano formati e che ne facevano, grazie all’intelligenza ed alla severità dell’impegno politico, l’esponente di maggiore spicco del cattolicesimo democratico.
La Sua esecuzione creò uno stato di forte disagio e quasi di ribellione tanto da far pensare al peggio; e vi fu anche chi cercò di indicare questa azione come una nuova forma di resistenza ai soprusi ed alle angherie di un fantomatico Stato al servizio dei capitalisti e per la liberazione delle classi operaie; tanto che Ziliani sentì la necessità di far stampare ed affiggere una serie di manifesti a firma Associazione Partigiani Cristiani – Piacenza dal titolo: “Brigatisti rossi e neri uniti per distruggere lo Stato democratico” con evidenziate le frasi:

”I primi hanno trucidato Aldo Moro, i secondi cercano disperatamente di distruggerne la memoria………. La verità è una sola: le brigate rosse e nere non sopportano che il Paese abbia retto al calvario di Moro e che gli italiani abbiano reagito dando vita alla Nuova Resistenza”
e ancora:

“ i Caduti per la libertà di ieri e di oggi indicano la via da percorrere: quella dello Stato democratico”.

Messaggi chiari che stanno ad indicare il senso più vero e profondo dell’esistenza e delle battaglie che Ziliani ha voluto incarnare e testimoniare con l’ obbiettivo della Libertà, della Democrazia e della Giustizia che si possono raggiungere e difendere solo attraverso il consolidamento delle Istituzioni Repubblicane.
Concetti semplici ma chiari attraverso i quali si può delineare la statura politica e umana della persona; come il discorso che tenne Aldo Moro a Piacenza, dove era venuto in qualità di Presidente del Consiglio ad inaugurare la nuova sede della De Rica, il 17 settembre 1965, ai quadri e militanti della Democrazia Cristiana piacentina; discorso del quale si possono delineare i seguenti contenuti fondamentali:

1) promuovere il superamento degli ideologismi mediante la considerazione prioritaria e centrale della persona umana;
2) completare il disegno autonomistico delle istituzioni pubbliche, per una reale e attiva unità dello Stato;
3) in conformità alle mutate esigenze della società, ripristinare le essenziali funzioni di rappresentanza e di sintesi dei partiti politici;
4) favorire la più larga e migliore partecipazione popolare, al fine di stimolare, nella dialettica democratica, la formazione di una nuova classe dirigente;
5) non adagiarsi sull’esistente, anche quando lo si ritiene stabile, ma saper cogliere le novità che costantemente e a ritmo crescente si manifestano;
6) annullare le conseguenze distruttive del corporativismo esasperato, mediante un rinnovato impegno solidaristico affinchè le decisioni non siano prese per la pressione dei più forti, ma secondo esigenze di equità;
7) intendere l’unità del partito quale corale contributo di tutti gli iscritti e presupposto essenziale per l’adeguata valorizzazione delle interne potenzialità.

Si era nel corso del secondo governo di centrosinistra dopo anni di governi centristi; stava iniziando il tempo dei grandi cambiamenti e Moro, da statista vero, aveva compreso che si doveva fare un salto di qualità e aveva anticipato i tempi; dopo la fase costituente era questo il primo momento in cui tornavano a governare insieme una parte dei due blocchi storici. Moro aveva compreso che senza iniziare un dialogo con gli esponenti della sinistra (per il momento socialista) non si sarebbe potuto dare risposta alle proteste di un mondo, allora per lo più rappresentato dagli operai, che chiedeva riforme e nuova dignità e per fare questo chiedeva anche al suo partito, la Democrazia Cristiana, di assecondarne il percorso e di avviarsi, esso stesso, verso la strada del rinnovamento e del ricambio generazionale.
Sarà questo un percorso lungo, tribolato ma anche ricco di soddisfazioni per l’Italia; siamo nel pieno del boom economico e della crescita complessiva di tutti gli strati sociali che permetterà al nostro Paese di collocarsi (a vent’anni dalla fine della guerra) tra i grandi del pianeta.
Percorso che per Aldo Moro terminerà il 9 maggio 1978 in via Caetani a Roma, all’età di 61 anni, dopo 55 giorni di straziante prigionia.

Scriveva, mio padre Giovanni, a dieci anni dalla scomparsa in un opuscolo fatto stampare per ricordare il Loro Maestro:

“Gli uomini si possono assassinare e fare scomparire, ma le loro idee non si possono cancellare, anzi, il martirio le iscrive in modo indelebile sulle pagine delle vicende umane”.

Sono considerazioni che valgono per i Martiri della Resistenza, di ogni Resistenza.

Il 6 agosto successivo moriva Paolo VI, che tanto si era battuto per la liberazione dello statista ed aveva anche rivolto un invito pubblico alle Brigate Rosse definendo Aldo Moro “caro amico”, nonché celebrando di persona il funerale pubblico (evento straordinario per un Papa); molti storici datano la fine della prima repubblica proprio con la scomparsa di questi due grandi uomini.
Moro, allora Presidente della democrazia Cristiana, fu rapito ed ucciso mentre si recava alla Camera dove si teneva il voto di fiducia del Governo, cosi detto, di “solidarietà nazionale” in quanto, per la prima volta, si sarebbe assistito al via libera dato dal Partito Comunista attraverso l’astensione; era la conclusione di un lavoro lungo e difficile iniziato da Moro nel 1962 ed al quale non potrà mai assistere se non dal cielo.
Vi assistette, invece in prima persona con la morte nel cuore e con l’angoscia del momento, l’allora segretario nazionale della Democrazia Cristiana (fortemente voluto proprio da Aldo Moro), Benigno Zaccagnini: uomo di Fede, partigiano combattente, padre costituente, politico di razza, amico fraterno di Ziliani con il quale condivide anche la data della fine terrena il 5 novembre.
Zaccagnini che aveva saputo risvegliare il partito ed i suoi militanti dopo la sconfitta nelle amministrative del 1975 (il sorpasso comunista) diventando segretario nazionale e riuscendo, come ha scritto pochi giorni orsono a Suo ricordo, Dario Franceschini (che fu Suo allievo):

“ ….a risvegliare il nostro orgoglio; l’orgoglio dell’appartenenza ad una grande storia, che veniva da lontano, e che era stata, in qualche modo, piegata ed avvilita”.

“E’ proprio l’identità democratica e cristiana del nostro partito – diceva Zaccagnini nella replica che concluse il congresso del 1976 – che non ci consente di essere il polo moderato dello schieramento politico italiano, il partito conservatore sottoposto alla volontà dei suoi protettori borghesi, e nemmeno il comitato d’affari del capitalismo italiano, oppure un’organizzazione di pura e semplice occupazione del potere”.

Scrive ancora Dario Franceschini:

“Benigno Zaccagnini era effettivamente un politico diverso dagli altri; perché per lui l’impegno era qualcosa che scaturiva come conseguenza inevitabile della sua fede; in politica non per la fede ma a causa della fede. Non si stancava mai di ripetere ai giovani quella spiegazione; e in questa motivazione, così impegnativa, c’era il senso di un dovere che non si può ignorare. Quel dovere di mettersi sempre al servizio del prossimo. Per lui era sempre stato così, e noi lo sapevamo e lo vedevamo; sapevamo e conoscevamo questa sua storia avventurosa e complicata, che lo aveva portato a cambiare la sua vita e a dire di si a domande scomode. Come quando aderì alla Resistenza, o come quando, finita la guerra, dovette cambiare i progetti della sua vita per rispondere alla chiamata politica. La politica come carità. La politica come amore del prossimo. La politica come il campo dove testimoniare “la differenza cristiana”. Fu questa radicale distanza dal modello del politico tradizionale che ci affascinò e ci conquistò. Perché in Zac vedevamo un uomo che usava il potere e non ne era usato.”

Quante analogie con il Nato, quanta comunanza di percorso, di esperienze, di valori, di visione della vita, di Fede praticata.


E quanta decisione! Dopo aver trascorso una vita a contrastare il comunismo dai banchi del Consiglio comunale di Monticelli d’Ongina, di Fiorenzuola d’Arda, da quelli del Consiglio Provinciale, come consigliere ed assessore, dopo essersi battuto sulle piazze, in occasione dei tanti discorsi politici e commemorativi in cui aveva dovuto difendere la presenza ed il ruolo dei partigiani cattolici nella lotta di Liberazione reclamandone l’importanza, spesso disconosciuta, della loro azione e di quella dei sacerdoti, dopo essersi trovato a leggere, in mezzo ai sorrisini di scherno, la preghiera di Teresio Olivelli, con quanta decisione, all’indomani della caduta del muro di Berlino, della fine della cortina di ferro e col riconoscimento, da parte dei partiti ex comunisti, dei principi fondamentali della dignità e del primato della persona umana, Felice Ziliani ha abbracciato gli avversari politici di tanti anni ed ha ripreso, con loro, il cammino comune a difesa dei diritti, della democrazia, della libertà e, soprattutto, a difesa e salvaguardia della Costituzione Repubblicana quale matrice indissolubile dell’unità dello Stato e dei principi fondanti di uguaglianza e giustizia sociale.
Non ha avuto dubbi il Nato nello schierarsi con il centro sinistra e con il Partito Democratico ben sapendo, pur nelle difficoltà e nell’incertezza del momento politico, dove batte il cuore della democrazia e della libertà; dove si possono riaffermare e praticare i valori così strenuamente difesi per una vita intera: dove si può continuare a sperare.

Come sperava, con ragione, Zaccagnini l’11 luglio del 1963 quando, intervenendo alla Camera dei Deputati si rivolse a Togliatti (capo del Partito Comunista) con parole profetiche:

“Vi è una barriera che per noi tutte le simboleggia: il muro di Berlino, un muro che per la prima volta nella storia serve non per impedire che altri dall’esterno penetri, ma per impedire che chi soffre dentro la città di Berlino est possa uscire ed evaderne. Noi sappiamo che anche questo muro verrà abbattuto; e non verrà abbattuto dai carri armati, ma dal cammino travolgente delle idee di libertà, di giustizia e di pace che ovunque avanzano nel mondo”.

E’ questa la forza che deriva dalla Fede, dalla onestà intellettuale, dalla determinazione a fare del bene prima ancora che riceverne; è la forza che deriva da una vita vissuta avendo chiari i valori e gli ideali e mettendoli in pratica, sia nella sfera personale che in quella pubblica, senza sbandierarli; è la forza che ha mosso Daveri, Canzi, Olivelli, Don Borea, Don Beotti, Mattei, Bachelet, Mattarella, Casalegno, Moro, Zaccagnini. E’ stata la forza, il coraggio e l’esempio dell’esistenza terrena vissuta al servizio degli altri di Felice Fortunato Ziliani, un Patriota, Ribelle per amore…sempre.

Concludo con quello che il Nato riteneva il testamento spirituale di Mattei e, credo, anche il Suo:

“Operare in silenzio, con tenacia nell’interesse del Paese. Ogni giorno un’ansia nuova ci sospinge: fare, agire, assecondare lo sforzo di questo nostro popolo che risorge. Noi abbiamo fiducia nella Provvidenza: essa assiste sempre tutti ed assiste il nostro Paese che fiorisce e si rinnova”


Grazie Nato

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