La battaglia delle idee oggi
di Alberto Mingardi
da Il Riformista, 29 agosto 2009
Con fraseggio forse inappropriato, agli intellettuali piace parlare della "battaglia delle idee". Il più delle volte ne emerge uno scontro di grandi individualità. E invece c'è anche chi dietro il palco controlla i suoni e monta le luci, un lavoro all'apparenza meno eclatante, eppure di importanza fondamentale, perché la singolar tenzione possa avere luogo.
Oggi che le grandi idee non bastano più, ma debbono plasticamente modellarsi addosso a problemi spesso nuovi, c'è tutto un lavoro di filatura che passa non dalla penna del grande studioso, ma dalla più routinaria elaborazione di tanti "professionisti". Nella battaglia delle idee, la fanteria conta. Questa fanteria Friedrich von Hayek la riconduceva ai "venditori di seconda mano delle idee": intellettuali che non hanno pretesa di originalità di pensiero, ma sono "diffusori" e "adattatori" di idee altrui.
In quest'ambito, la sfida è particolarmente complessa per il pensiero liberale. Il destino della libertà è amaramente segnato dal fatto che è impossibile "imporla" coercitivamente. Le istituzioni che ci consentono di vivere ordinatamente assieme, liberi dal potere arbitrario, sono fragilissime. Promettono poco, e per questo coagulano attorno a sé un consenso che il più delle volte è tiepido, distante. Eppure, non possono mettere radici altrove che nel consenso: perché quando gli uomini smettono di volerla, la libertà dal potere arbitrario, è già morta.
Questa diffusione capillare dei principi della libertà, spesso sfuggenti e controintuitivi, è stata missione che nel Novecento si sono dati in pochissimi. Marginalizzati nell'accademia e inevitabilmente minoritari in politica, quei pochissimi hanno cercato di fare filtrare le proprie idee provando a sviluppare strumenti nuovi. Uno di essi è rappresentato dai cosiddetti "think tank", "università senza studenti", realtà spesso ibride ("producono" idee nei modi i più diversi), che soprattutto nel mondo anglosassone sono riuscite ad esercitare un'influenza significativa - in virtù della loro capacità di fornire soluzioni "chiavi in mano" alla politica.
I "think tank" sono essenzialmente "mediatori" fra gruppi molto differenti: gli intellettuali che li animano, la politica (destinataria delle loro ricette), una vasta e varia comunità di "sostenitori". Sul piano morale così come economico. Il "think tank" è una piccola avventura imprenditoriale, e lo sapevano bene i saggi costruttori della madre di tutti i pensatoi, l'Institute of Economic Affairs di Londra. Che nacque per ispirazione di un grande pensatore (Hayek), attraverso lo sviluppo di una strepitosamente feconda partnership fra due "second hand dealers in ideas", Ralph Harris ed Arthur Seldon (grande fu la loro capacità di scovare e mobilitare altri intellettuali), e per l'iniziativa di un imprenditore, Anthony Fisher. Fu Hayek ad indicare a Fisher la via. Questi avrebbe voluto candidarsi fra i Tories. Hayek gli suggerì che un voto in Parlamento avrebbe raramente fatto la differenza. Investendo il suo entusiasmo e un po' di risorse in un'avventura di lungo periodo, volta a mostrare l'inconsistenza economica del collettivismo, invece avrebbe potuto avere un impatto. L'albero diede frutto quando, con Margaret Thatcher, arrivò al governo una classe dirigente formatasi nelle stanze dell'IEA. Ma a me ha sempre fatto impressione lo spirito di sacrificio di Fisher. Non cerca l'applauso, gli onori di un seggio. Anzi, arriva a negare il proprio bisogno di visibilità, per trovare un modo più efficace di perseguire i suoi fini.
Fisher è all'origine di un vasto network di istituti creati a immagine e somiglianza dell'IEA, cui dedicò tutta la vita, fra alterne fortune imprenditoriali. Non poteva esibire credenziali altisonanti. Era un allevatore di polli, che poi prese un granchio colossale provando ad allevare tartarughe. Ma se le idee liberali sono più forti oggi di quanto non fossero negli anni Cinquanta (e, oggettivamente, lo sono), quanta parte del merito va ascritta a questo allevatore di polli?
Non ho potuto che ripensare a Fisher perché è mancato un caro amico il cui nome dirà nulla ai lettori di questo giornale: Franco Forlin. Franco era un piccolo imprenditore di Torino, fra i fondatori dell'Istituto Bruno Leoni (www.brunoleoni.it). Anche lui, come Tony Fisher, non cercava i riflettori, ma faceva il possibile perché le idee che gli erano care potessero farsi luce. Come tutte le persone generose, lo era con tutto se stesso. Col portafoglio, col suo tempo, con la sua intelligenza. Non mi ha stupito, al suo funerale, apprendere che sono molte le cause di cui si era messo a disposizione: con sabauda discrezione, senza gli orpelli della "responsabilità sociale d'impresa", per curiosità delle cose del mondo.
Da uomo d'impresa, sapeva che non basta combattere per una causa giusta: bisogna farlo con intelligenza, usando bene le poche risorse che si hanno, misurando il proprio impatto. Era un idealista concreto. Del genere più bravo, nella partita delle idee, a segnare punti.
Che gli imprenditori si dedichino alla politica, è normale. Ma, seguendo l'illustre esempio, è tutta questione di lustrini. Non so che frutti darà, la passione per la libertà che Franco lascia dietro di sé. Però so una cosa. Fossero di più quelli come lui, gli imprenditori politicamente attivi perché credono in qualcosa e non esclusivamente in se stessi, il nostro sarebbe un capitalismo migliore.
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