venerdì 19 giugno 2009

La ricetta liberale per la sinistra: in Italia una strada difficile

da Corriere della Sera del 18 giugno 2009, pag. 12

di Michele Salvati


Il piccolo e denso libro di Salvatore Biasco «Per una sinistra pensante» (I libri di Reset, Marsilio) è una lettura fortemente consigliata a chi si interessa di partiti in generale, e di partiti di sinistra in particolare. Biasco è un economista, non un politologo, ma anche i politologi troveranno espresse - in un linguaggio meno tecnico, e però con la ricchezza di dettaglio che solo può venire da un’esperienza politica diretta - molte conclusioni raggiunte di recente dalla loro disciplina. E i partigiani di quella parte politica troveranno un resoconto, insieme raziocinante e appassionato, dei problemi di organizzazione e di strategia che il principale partito della sinistra italiana ha affrontato nella sua penosa transizione: e sono gli stessi problemi, non risolti, che ora affronta il Partito democratico. Lettura consigliata a molti, dunque, ma lettura obbligata per chi ha sostenuto che «il liberismo è di sinistra» - titolo di un libro di Alesina e Giavazzi pubblicato due anni fa. O che il Partito democratico debba spendersi per quella «rivoluzione’liberale» che in Italia non c’è mai stata: è la tesi di un mio libro pubblicato da Feltrinelli nello stesso anno. Il libro di Biasco è una confutazione intelligente e documentata di queste tesi. Non per la ragione che oggi sembra ovvia - che il liberismo estremo è alla radice della crisi economica nella quale siamo immersi - ma per una ragione più profonda. Una ragione che non riguarda solo o tanto le prescrizioni del liberismo economico e il loro possibile contrasto con una crescita senza gravi crisi cicliche e con piena occupazione. Ma che riguarda la stessa visione liberale della società, la visione di una società aperta dove le libertà e le chances di vita dei singoli non siano ostacolate da accordi collusivi, posizioni di rendita, arrangiamenti corporativi, associazionismo degli interessi e rapporti di questi con la politica. Il libro è stato infatti pensato, a margine di un’intensa esperienza parlamentare e politica, molto prima dell’esplosione della crisi attuale: come presidente della Commissione bicamerale sulla finanza pubblica nella XIII legislatura, poi come presidente di un’analoga commissione consultiva presso il ministero dell’Economia tra il 2006 e il 2008, e poi attraverso tante altre attività meno ufficiali, Biasco ha accumulato un’esperienza ricchissima di trattative con gli interessi economici, conosce i dirigenti delle loro cento e più associazioni di rappresentanza, sa che cosa vogliono i loro iscritti. Ed è questa esperienza che lo induce a dubitare che, in Italia, una strategia liberale come quella proposta da Alesina e Giavazzi (e, in modo più cauto e spendibile a sinistra, anche da chi scrive) sia una strategia che la sinistra possa mai perseguire. La tesi è ben argomentata e la documentazione sottostante molto ricca: dalla lettura vien fuori un’immagine «alla De Rita» della società italiana, espressa in un linguaggio meno immaginifico ma con dilemmi politici tratteggiati in modo più tagliente. Può mai la sinistra rapportarsi alla società e all’economia del nostro Paese come se questi interessi economici e professionali organizzati non esistessero, e dunque riferendosi esclusivamente ai singoli individui intesi come utenti e consumatori, che si avvantaggerebbero dall’abbattimento di barriere corporative, da una ventata concorrenziale che ridurrebbe i costi e lascerebbe sopravvivere solo i produttori più efficienti? In sintesi: può mai la sinistra essere liberale? Osservazione immediata: e la destra? Non c’è infatti un solo argomento tra quelli usati da Biasco per rispondere negativamente alla domanda appena fatta che non sia riferibile anche ad una ragionevole forza politica di centrodestra. La domanda vera è dunque: può mai la politica italiana disinteressarsi dei modi in cui la società si auto-organizza, in cui gli interessi si associano e si difendono? Può mai calare dall’alto regole e prescrizioni che non tengano conto di questa densità associativa, riferendosi in modo esclusivo alle esigenze di massimo benessere dei singoli consumatori e dimenticando che costoro sono anche, in larga misura, produttori organizzati? Gli argomenti con i quali Biasco sostiene la sua risposta negativa sono quelli classici dei corporativisti intelligenti: anzitutto l’auto-organizzazione trasmette alla politica informazioni di dettaglio che questa non potrebbe acquisire se non si rapportasse con continuità alle associazioni di interesse; secondariamente, il rapporto con gli interessi consente di disegnare misure che le associazioni e i loro membri sentirebbero come adeguate ed accettabili, e dunque concorrerebbero ad attuarle; da ultimo, e soprattutto, una politica forte e autorevole, e rapporti con gli interessi ben disegnati - merita riflessione il disegno proposto nel quarto capitolo - potrebbero soddisfare in buona parte e senza traumi quel disegno universalistico che i liberali vorrebbero raggiungere facendo piazza pulita. Un disegno impossibile in Italia, e forse neppure desiderabile. Argomenti non nuovi, dicevo, ma esposti con una conoscenza di causa, un equilibrio, un’attenzione per la complessità, che li rende di estremo interesse. I liberali, gli Alesina e i Giavazzi e, nel suo piccolo, anche chi scrive, trovano in questo libro pane, e pane duro, per i loro denti.

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