Discorso tenuto il 2 giugno 2009 in località Santa Franca di Morfasso dal vice-Presidente della Provincia di Piacenza, Mario Spezia
Il 2 giugno 1946 si verificarono, contemporaneamente tre grandi eventi della nuova storia italiana: il Referendum Monarchia - Repubblica, l’elezione della Assemblea Costituente, il voto politico a suffragio universale: quindi il voto alle donne.
Non tutto era stato semplice, come si può immaginare; si trattava della prima, vera, fondamentale prova di operatività istituzionale che il Governo, emanazione del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale), doveva affrontare.
Non era solo questione di rivendicare ed imporre un concetto, una prassi democratica; si trattava di rompere tabù che si perdevano nella notte dei tempi e superare la paura che questa Italia così unita nella sua territorialità e nella sua religiosità, ma così scomposta nella sua società civile, potesse non rispondere positivamente a quel sentire repubblicano, di gran lunga maggioritario all’interno della Consulta Nazionale e del Governo.
In effetti il voto unanime con il quale l’Assemblea Costituente decretò la nascita della nuova Costituzione, accusava, da un lato dentro di sé, tutta l’immane tragedia che la guerra aveva calato sull’Europa e sull’Italia, in termini di morti, di stermini, di distruzioni e di epocali trasmigrazioni; dall’altro poteva contare quasi unanimemente, nella sua diretta provenienza partigiana laddove “…si verificava… un’insurrezione che era totalmente politica e che fu la nascita, la fabbrica di una democrazia“ (Giorgio Bocca: Repubblica).
“La nostra Resistenza fu un evento rivoluzionario come fatto, ma il cui esito fu il superamento della Rivoluzione per arrivare ad una piena cultura della democrazia” (Pietro Scoppola: Repubblica).
La Resistenza fu dunque anche e soprattutto una prima fase Costituente, la premessa e la promessa di una Costituzione Democratica, il nerbo, l’ossatura per una nuova volontà e mentalità tesa all’instaurazione di un sistema definitivamente democratico in Italia.
E per la Resistenza questi territori, e le sue popolazioni, hanno visto e recitato una parte fondamentale ed indimenticabile.
A cominciare dalle ore 12 del 24 maggio 1944 quando, al rintocco delle campane, Morfasso diventa la prima amministrazione democratica, ufficialmente creata, nell’Italia occupata e Paolo Selva (il comandante Selva – Vladimiro Bersani) ne diviene il primo Sindaco.
E’ questo il primo atto concreto che segue l’organizzazione, in Val d’Arda, delle truppe partigiane a partire dall’8 settembre ’43; organizzazione che il CLN piacentino aveva affidato al comandante Selva con il compito (come scrive il prof. Berti nel suo libro):” …dell’unificazione delle forze spontanee sparse e particolaristiche nel loro sorgere, e di creare un centro efficace sul Lama, di collegamento con il vertice nazionale settentrionale tramite quello alleato”. “Lo slancio ardimentoso di Selva (proseguiva il prof. Berti) è fermento nei gregari portati così all’azione, superando l’attesa dell’apparente inerzia invernale 1943-‘44”.
Unificazione delle formazioni partigiane della Val d’Arda che avevano trovato ufficialmente la conclusione l’11 Aprile del 1944 con la costituzione della 38° Brigata d’Assalto Garibaldi al comando di Selva che chiama Prati come suo vice; Brigata che ha al suo interno i distaccamenti:
quello pilota,sul monte Lama, sul monte Santa Franca un altro al comando di Primo Carini(Pipp), a Settesorelle, un terzo al comando dello Slavo, sul monte Moria un altro al comando di Inzani.
La reazione alla liberazione da parte dei partigiani di Morfasso e dei comuni dell’alta Val d’Arda fu immediata e diede luogo al primo rastrellamento tra il 4 ed il 10 giugno ’44, che causò un comprensibile disorientamento tra le formazioni partigiane ma quell’ operazione bellica preannunciata con tanta sicurezza, fallì completamente.
Citiamo testualmente i ricordi del comandante:
Ero ansioso di fare l’inventario dei guasti subiti dalla nostra organizzazione.
Purtroppo se sul Lama era andata bene, la fatalità aveva lasciato il suo segno funesto in altre zone. Fu così che avemmo i primi Caduti. Nel pomeriggio del 3 giugno la formazione del Pip con i suoi trentacinque patrioti, si era portata su Gropparello e aveva attaccato la stazione di avvistamento contraereo installata a Casa Boccacci. Gli spauriti territoriali che ne componevano la guarnigione furono in breve costretti alla resa e lasciati liberi di tornare alle loro famiglie dopo aver, ovviamente, consegnato le armi. Poiché la stazione era dotata in abbondanza di munizioni e materiale di vettovagliamento, il Pip dovette provvedere a reclutare il camioncino Fiat 604, di certo Luigi Gallinari da Groppovisdomo, per trasportare il suddetto materiale fino a Prato Barbieri. Da lì, a mezzo di tregge montanare, trainate da buoi, sarebbe stato fatto giungere al loro quartiere sul Santa Franca.
Perché provvedessero a questa incombenza furono fatti salire sull’automezzo anche tre partigiani: Antonio Rossetti da Gropparello, Giuseppe Carini da Generesso, Benvenuto Carini da Teglio. Il resto degli uomini con il Pip sarebbe giunto a piedi più tardi all’accampamento. Al termine della strada autocarrabile i tre reclutarono nella notte buoi e slitte a Guselli e Prato Barbieri e su queste avviarono il materiale a destinazione. Sorpassate di qualche centinaio di metri le case di Montelana, lasciarono proseguire i civili da soli (tanto sapevano che all’accampamento erano rimasti di guardia alcuni dei loro compagni) e si fermarono sul ciglio della strada per attendere il resto del distaccamento.
A quell’altezza, oltre mille metri, a quell’ora, di notte, benché si fosse già al 4 di giugno, era piuttosto freddo. Non fu difficile raccogliere sterpi e frascume di faggio, abbondante nella zona, ed accendere un bel fuoco ristoratore. La stanchezza ed il tepore li portarono gradualmente al sonno senza aver prima predisposto turni di guardia poiché si sentivano al sicuro. Fu invece quel sonno una mortale trappola del destino.
Improvvisamente infatti, all’incerta luce dell’alba lungo il sentiero che da Prato Barbieri per Montelana porta al S. Franca, si profila una lunga colonna di tedeschi che spinge davanti a sé alcuni civili.
Le donne e gli anziani del piccolo paese stanno seguendo con terrore, da dietro le rustiche persiane socchiuse, la lunga schiera che ormai sta affrontando l’erta sassosa che porta al monte. Neppure loro sanno dei tre addormentati a pochi metri dalle case.
Ormai anche la retroguardia ha superato il paese e i trepidanti montanari pensano che il peggio sia passato; ma si sbagliano. Un sinistro crepitio rompe improvvisamente il silenzio della valle. Chi avranno colpito? Tremano e si chiudono nelle case, mentre fuori grida di trionfo fanno eco agli spari.
Il nemico, partito da lontano per distruggere per sempre i ribelli del Lama e del Santa Franca, finalmente li ha incontrati! Una preda facile: tre giovani che la stanchezza e la sicurezza di aver i compagni alle spalle aveva offerto alle sue armi nel sonno. Non ha pietà, non sente vergogna di colpire in modo così vile e facile.
Li ha abbandonati lì, sul sentiero montano, con il viso lacerato dagli squarci delle ferite; i miseri corpi rattrappiti nelle innaturali contrazioni in cui li ha fissati l’estremo spasimo della morte.
Sono i primi tre caduti della “Valdarda”. La sera stessa, don Giuseppe Borea, parroco di Obolo, saputo dell’eccidio si reca sul posto sfidando il nemico per benedire e ricomporre le salme straziate ed il giorno che seguì le fece trasportare al cimitero della sua parrocchia dove provvide alla tumulazione provvisoria.
Un’altra fucilazione si ebbe il pomeriggio di quella stessa domenica al vicino passo di Santa Franca. Il giovane Eugenio Silva di Tiramani, di vent’anni, imbattutosi nel bosco in una pattuglia, venne fucilato sul posto. Inutilmente aveva alzato le mani in segno di resa. Più o meno a quell’ora, a Bardi nel parmense, veniva passato per le armi un quinto partigiano della “Valdarda”: Luigi Evangelista del distaccamento dello Slavo.
Anche la popolazione civile ebbe il suo primo caduto: Stefano Fulgoni di quarant’anni. Fu il giorno dopo: lunedì cinque giugno. Il Fulgoni, esercente di tabaccheria e osteria a Rocchetta, fu fermato a Prato Barbieri mentre si recava a Bettola assieme al calzolaio Giovanni Malvisti per gli acquisti settimanali. Mentre il Malvisti fu rilasciato perché anziano, egli fu trattenuto. I tedeschi (o repubblichini?) che gli controllarono i documenti s’accorsero di un certo numero di banconote che recava nel portafoglio e che gli servivano per le compere della giornata. Da qui la sua condanna a morte. Gli imposero sulle spalle una pesante cassetta di munizioni e lo costrinsero a seguirli per tutta la giornata. A sera, sulla via del ritorno, anch’egli sul passo di Santa Franca, venne freddato con un colpo di pistola. Fu così più facile alleggerirlo del portafoglio.
Non vi era l’alternativa della cattura e della prigionia? Quei cinque giovani facevano parte dei partigiani che fino a quel giorno avevano rilasciato senza offesa e senza danno tutti i militi, pur catturati in combattimenti, che si erano insediati nella loro montagna per braccarli e perseguitarli. Poche ore prima ne avevano rimandati alle loro case diciassette. Chiedevano solo di essere lasciati in pace, di non essere costretti a servire ancora un padrone che non riconoscevano legittimo, un regime che tante sventure aveva portato alla patria.
“Sono ribelli, sono fuorilegge!” era la trasparente scusa dietro cui i nemici di Berlino e di Salò tentavano di giustificare le loro tristi azioni di quei giorni e lavare la loro coscienza. Era la giustificazione del più forte.
Erano ribelli: sì, ma anche uomini con una loro legge: legge d’onore, per la quale erano morti. Vennero pensieri di vendetta a quella notizia, ma tornò subito la riflessione ed il senso della propria coscienza e della propria dignità; continuammo ad essere i cavalieri della montagna che seppero trattare i loro nemici da creature umane. (così ricordava nel suo libro quegli avvenimenti il comandante Prati)
Dal sacrificio di questi ragazzi, dei civili, dell’impegno dei sacerdoti e della popolazione intera si può dire che dal crogiolo della Lotta di Liberazione, dalla guerra partigiana e dall’impegno Resistenziale, la nostra Costituzione porti l’impronta di uno spirito universale.
Ne consegue chiaramente che ogni eventuale sostanziale revisionismo della stessa deve assolutamente corrispondere a comprovate necessità istituzionali e deve interpretare un’esigenza sentita dalla stragrande maggioranza degli italiani in modo che sia evidente il rispetto di quello storico e quasi sacrale valore della nostra Costituzione.
Come ci ricordava proprio a Piacenza, il 2 giugno 2006 nell’anniversario del 60°, il Presidente Emerito della Consulta, Prof. Leopoldo Elia dal quale si ebbe una autorevolissima conferma del valore della nostra Costituzione scaturita da quell’Assemblea eletta il 2 giugno 1946.
“La Costituzione” affermò “ non è di una maggioranza ma è un patto che vale per le generazioni future ecco perché deve avere, ed ha, una capacità comprensiva ed inclusiva che regga all’urto del tempo”…” E’ una carta che va oltre il tempo ed i partiti che lo hanno generato.
Cambiarne una sua parte oggi può costituire un pericolo per l’unità nazionale”.
Ritengo quindi che in occasione di questo 2 giugno 2009 non vi sia promessa più valida e più civilmente produttiva, e maggiore riconoscimento al sacrificio estremo dei ragazzi che oggi qui commemoriamo, di quella di dichiararci punti fermi nella difesa della Costituzione innanzi a tentativi di modifica che non rispettino i parametri essenziali della natura e dell’essere di questa nostra Repubblica.
Da qui il forte richiamo, che in questi giorni ci è venuto sia dal Presidente Napolitano che dal suo predecessore Carlo Azeglio Ciampi per cercare con determinazione di assumere dalla Costituzione la forza ed il senso di un impegno civile e solidale di tutti gli italiani anche contro le generalizzazioni e le drammatizzazioni tendenti a smontare, ritenendolo inutile e superato, parte del nostro sistema Istituzionale e politico.
Perciò è oggi importante ricordare un valore fondamentale che ci viene dalla Resistenza e che ha segnato profondamente la vita ed il destino di tanti giovani e cioè il concetto della “ responsabilità personale”; concetto nuovo e, se vogliamo, rivoluzionario per quei tempi segnati da un regime che dell’annullamento della persona umana aveva fatto il proprio credo.
Ma valore importante e nuovo anche oggi all’interno di una società troppo individualista ed incolore.
“La Resistenza che continua deve preservarci dall’abitudine del comodo quotidiano, dell’indifferenza verso i problemi degli altri, come se non fossero anche i nostri.
Di questi sentimenti devono essere permeate le nostre azioni, dobbiamo essere ancora una volta con un solo spirito: quello del bene comune.
Ciò è vivere, non sognare.”
Così dalle colonne del quotidiano locale “Libertà” scriveva pochi anni fa, Felice Ziliani, Presidente provinciale onorario dell’ Associazione Partigiani Cristiani, un Ribelle per Amore che, purtroppo, anche Lui con la sua scomparsa ci ha lasciati più soli.
E’ con la freschezza di spirito e la giovinezza di pensiero di questo giovane, allora ultraottantenne, che lanciamo lo sguardo speranzoso al domani anche per rammentare, in un momento di sfiducia verso il sistema Istituzionale e politico e di disorientamento verso la grave crisi economica che rimette in discussione certezze e tranquillità che sembravano definitivamente acquisite, l’importanza ed il ruolo fondamentale ed insostituibile della Democrazia e della Libertà e soprattutto vogliamo e dobbiamo con ciò ricordare a tutti noi la necessità che per la difesa di questi principi e valori è necessario ed indispensabile, come lo è stato per la lotta di Liberazione, che ognuno di noi porti il proprio contributo e svolga al meglio la propria parte nell’interesse comune.
Viva la Patria, viva la Repubblica, viva l’Italia
Mario Spezia
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