da Il Riformista del 29 gennaio 2009, pag. 12
di Luciano Violante
Il Tar di Milano ha annullato un provvedimento della Regione Lombardia che proibiva al personale sanitario della Regione di sospendere il sostegno vitale ad Eluana Englaro.
Il Tar ha seguito i principi stabiliti dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, che, applicando la Costituzione, ha deciso che il paziente ha il diritto di rifiutare le cure odi decidere consapevolmente di interromperle in tutte le fasi della vita, anche nella fase terminale. Per il principio di non discriminazione, questo diritto, nei casi di handicap, va esercitato nelle forme previste dalla legge dal tutore e dal curatore speciale della persona interessata, interpretando la volontà del paziente, come è desumibile dai suoi comportamenti, dai suoi orientamenti, dal suo stile di vita.
Il Tar non si è limitato a ricordare che il diritto costituzionale a rifiutare le cure è un diritto di libertà assoluto. Ha anche fissato le condizioni mediche che possono legittimare la sospensione dei trattamenti: a) stato vegetativo irreversibile che non lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche recupero di coscienza, sia pure flebile; b) elementi di prova chiari, univoci e convincenti di quella che sarebbe stata la volontà del paziente.
Nel dibattito pubblico sembra che la linea di demarcazione sia stata tracciata dai vescovi italiani, quando hanno negato che esista un diritto a non essere curati e quindi anche un diritto a morire. Di fronte a questa posizione il mondo politico sembra diviso tra anticlericalismo fazioso, subalternità, incertezza, quasi senza consapevolezza della drammaticità del tema e delle conseguenze delle scelte. I vescovi sostengono legittimamente i principi dell’etica cattolica. La politica ne deve tener conto perché è una posizione in sé autorevole e fondata su convincimenti sperimentati nei secoli.
Ma il criterio discriminante per la nostra Repubblica non può essere l’adesione o il rifiuto nei confronti di un convincimento religioso. Il parametro della Repubblica è la sua Costituzione; e nient’altro. Dovrebbe rifletterci anche il Governo. Nella nostra Costituzione è sancito il diritto alla cura; non è sancito, né è desumibile il dovere di farsi curare. Questo vuol dire che esiste il diritto di morire? E’ drammatico, ma l’inesistenza di un dovere di farsi curare può comportare, in determinate condizioni, un diritto a morire. La tragicità di questa scelta comporta la necessità che il paziente non sia lasciato solo nella sua difficile condizione umana. Ma corrisponde a un’etica civile dargli la possibilità di scegliere se farsi curare o se interrompere le cure. C’è la preoccupazione che il testamento biologico sia l’anticipazione dell’eutanasia. Se così fosse, sarei il primo a essere contrario. Ma l’eutanasia è cosa del tutto diversa e va bandita, a mio avviso, non solo per il valore della vita, ma anche perché alla fine potrebbe riguardare soprattutto i malati più poveri o quelli più soli.
Chi è contrario al testamento biologico dovrebbe chiedersi di chi è la vita: della persona o dello Stato? E può esistere una coazione legislativa a farsi curare contro la propria volontà? E corretto chiedere, come fa la Cei, che una legge dello Stato sposi un convincimento proprio dell’etica cattolica, obbligando a sottostarvi anche chi non ha quel convincimento? Non è più giusto cercare nella società, non nello Stato, il consenso alle proprie posizioni etiche? Aldo Moro, nel Consiglio nazionale della Dc che si tenne dopo la sconfitta del suo partito nel referendum sul divorzio disse: «Settori dell’opinione pubblica... sono ora ben più netti nel richiedere che nessuna forzatura sia fatta con lo strumento della legge, con l’autorità del potere al modo comune di intendere e di disciplinare in alcuni punti sensibili i rapporti umani. Di questa circostanza non si può non tener conto perché essa tocca ormai profondamente la vita democratica del nostro Paese, consigliando talvolta di realizzare la difesa di principi e valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi, e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale». Non esistono solo le leggi. Esiste la pedagogia, religiosa e civile, esiste il dibattito pubblico, esiste l’etica della persuasione, la possibilità di convincere e di essere convinti sulla base di argomenti razionali. Perché tutta questa ricchezza non entra nel dibattito politico? Nulla è più sbagliato della cieca fiducia nella legge. Certo la legge ha una sua capacità pedagogica; ma una legge che non obbliga ma dà la facoltà, come quella sul testamento biologico, lascia un grande e necessario spazio ai convincimenti personali. Sui temi che riguardano i confini della vita, la nascita e la morte, lo Stato non può imporre la sua soluzione. Può solo prevedere una possibilità che i cittadini liberamente decideranno se e come utilizzare. Nello spazio tra la legge e la decisione del singolo paziente scorre l’infinita pianura della democrazia. Non bisogna averne paura.
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