Ripubblichiamo un intervento del senatore Valerio Zanone
Conferenza tenuta al Circolo Culturale "Progetto" - Bergamo - 28 ottobre 1996
(trascrizione dal nastro audioregistrato)
Ringrazio l’Avv. Roberto Bruni per le sue parole e per il suo invito. Sono lieto dell’occasione che mi è offerta di parlare stasera a Bergamo e di incontrare vecchi amici ai quali mi lega un affetto che non varia col variare delle fortune. Sarò, come si conviene, strettamente disciplinato al tema che i dirigenti del Circolo hanno voluto stabilire: ciò che significa "essere laici oggi". Mi propongo (ma i buoni propositi in genere hanno breve durata) di parlare per una ventina di minuti in modo da lasciare più spazio alla conversazione.
Sono grato al presidente anche per il benevolo richiamo alla voce "laicismo" del dizionario di politica pubblicato dalla U.T.E.T. giusto vent’anni fa. Ciò mi offre l’occasione per qualche considerazione su ciò che significava essere laici ieri e su ciò che può significare essere laici oggi. Ma prima di tutto facciamo un po’ di filologia alla buona sul significato del termine "laico".
Cosa significa "laico"
Da vecchio compilatore del dizionario devo innanzitutto dichiarare il significato che attribuisco al termine: essere laico significa non essere "chierico". Ciò ha principale significanza in campo religioso, i chierici sono quelli che rappresentano la chiesa docente e i laici sono coloro che formano il popolo discente. Però, nel linguaggio comune il termine viene adottato anche al di fuori dell’ambito religioso per designare coloro che non appartengono ad una autorità realizzata, non vestono un abito particolare. Così, quando si parla del Consiglio Superiore della Magistratura, i membri laici di quell’organismo sono quelli eletti dal parlamento che si distinguono da coloro che sono togati in quanto provengono dalle fila della magistratura. In sostanza nel termine laico c’è il richiamo - nella radice greca "laòs" - al popolo, alla gente, ma non la gente con tre "g" come si dice adesso; la gente con una "g" sola perché, come cercherò di dire tra poco, il termine laico ha molto a che vedere con la teoria dell’individualità. Quindi il "laòs", da cui deriva il termine laico è un "populus", una gente che va vista non come una sorta di gregge uniforme di fruitori di messaggi collettivi, bensì va vista con riferimento ai valori della individualità.
Laici di ieri
In quella voce del dizionario scritta per l’appunto più di vent’anni fa e pubblicata nel ’76, distinguevo due accezioni del termine: quella relativa alla cultura laica e quella relativa allo Stato laico. La cultura laica riguarda una serie di filosofie o di sistemi di pensiero molto differenti l’uno dallaltro, ma che hanno in comune l’emancipazione della filosofia e della morale dalla religione positiva. Per cultura laica intendo, dunque, quei sistemi di pensiero che, anche se diversamente orientati nelle origini e nelle finalità , tuttavia hanno in comune la separazione dell’ambito del pensiero e della morale dalle confessioni religiose, dalla religione positiva. Si possono attribuire alla cultura laica, per esempio, il razionalismo, l’illuminismo, l’empirismo, il relativismo e molte altre culture della modernità, le quali sono differenti l’una dall’altra salvo che in un fatto: di essere sommamente sgradite al Pontefice attualmente regnante, il quale è certamente una personalità di assoluto rilievo mondiale, probabilmente la più importante e la più nota. Non si manca di rispetto alla grande personalità del Papa Giovanni Paolo II se si osserva che da ciò che egli scrive e professa emerge una certa avversione verso tutte le culture laiche della modernità, fulminate una dopo l’altra; il razionalismo, l’illuminismo, il relativismo, l’empirismo. L’enciclica "Veritatis splendor", in cui si pronuncia la condanna di queste culture , è una sorta di sillabo del duemila in cui la chiesa attraverso l’insegnamento del Pontefice ha voluto segnare la condanna verso le espressioni della cultura laica.
La seconda definizione - quella relativa allo stato laico - ha un profilo storico più facile, perché trae origine dalle guerre di religione degli inizi del Seicento. Le guerre di religione europee degli inizi del Seicento provocarono per reazione la ricerca di una nuova forma dello Stato in cui compariva quel principio della tolleranza, che è uno dei princìpi fondamentali della cultura liberale. Il principio di tolleranza nasce dalla reazione alle guerre di religione seicentesche perché il derivato di quelle terribili esperienze fu il principio dell’autonomia delle istituzioni pubbliche rispetto al magistero ecclesiastico. L’autonomia delle istituzioni pubbliche rispetto al magistero ecclesiastico ha il suo presupposto ideale nel principio di tolleranza.
Le due definizioni del principio di tolleranza
Del principio di tolleranza si possono dare due definizioni: una definizione che chiamerò forte e una definizione che chiamerò debole.
La definizione debole del principio di tolleranza è quella autorizzata dalla Chiesa e talvolta praticata dagli Stati sino alle soglie dell’era odierna: consiste in sostanza nella dottrina del male minore, ossia la definizione debole del principio di tolleranza equivale a pensare che si deve tollerare un errore per una sorta di sopportazione che contiene in sè il calcolo del danno maggiore che deriverebbe ove la tolleranza non ci fosse. Questa definizione viene definita debole perchè richiede soltanto la sopportazione, la benevolenza o - se vogliamo - la benignità da parte del principe.
Però nel processo storico - nel corso del Settecento, direi prima in Inghilterra che nel continente - quella idea iniziale del male minore si è trasformata fino a cambiare del tutto, fino ad assimilarsi e quindi a sciogliersi nel principio di libertà: la tolleranza non è più la sopportazione dei dissenzienti, ma il riconoscimento del loro diritto di essere tali. La definizione forte è, dunque, quella che risolve la tolleranza nella libertà, ossia riconosce la sfera politica come penultima rispetto alla sfera dei valori assoluti che hanno il loro luogo solo nella libertà della coscienza individuale.
Sto scrivendo un libro in cui si parla parecchio della dottrina di John Rawls, il filosofo politico americano di cui credo anche nei vostri dibattiti si sarà parlato più di una volta per la grande influenza che ha esercitato sul pensiero neoliberale nell’ultimo quarto di questo secolo. Rawls è un esempio tipico, perché la costruzione della sua teoria della giustizia è estranea a riferimenti di carattere storiografico; soltanto nella seconda fase del suo pensiero - raccolta e pubblicata ora in italiano nel saggio "Liberalismo politico" - Rawls, volendo definire in termini liberali la sua filosofia, cerca un referente storico e lo trova appunto negli esiti delle guerre di religione e quindi nel principio di tolleranza che, ad un certo momento, da tolleranza si evolve in libertà religiosa. E’ storicamente provato che la prima forma del liberalismo politico è la libertà religiosa: Rawls quindi dichiara la libertà religiosa come la più inalienabile libertà.
Dal principio della libertà religiosa sono poi nate nella storia le libertà civili, le libertà politiche, le libertà sociali e tutta la categoria dei diritti di libertà: il problema della libertà religiosa è fondamentale nella storia del liberalismo. Ora, se assumiamo questa considerazione della tolleranza che diventa libertà religiosa come un termine di paragone per valutare le diverse forme dello Stato, si vede come ad un principio siffatto non possano corrispondere né Stati che professano una religione privilegiata, né Stati che comportano l’ateismo di Stato, ossia impongono ai loro cittadini di non credere in nessuna religione.
Per riferirci ai fatti di casa nostra e alla storia di questo secolo, non possono dirsi laici né i fascisti concordatari, per la ragione che il sistema concordatario si fonda sul privilegio della confessione cattolica rispetto alle altre; né i cattolici integrali, per una ragione opposta, ma in qualche modo convergente con la prima, ossia che l’integrismo cerca di tradurre in legge quella che è invece una scelta religiosa riservata all’individualità della persona nella sua libertà; né i comunisti-leninisti - fino a quando il marxismo-leninismo ha avuto qualche vigore - perché era una forma di ateismo di Stato, in cui lo Stato assumeva un valore metafisico come religione alternativa alle religioni positive. Perciò, se siamo tutti d’accordo come mi pare abbastanza facile essere, che né i fascisti concordatari, né i cattolici integristi, né i comunisti-leninisti possono dirsi laici, arriviamo alla prima conclusione di riconoscere, come del resto sappiamo, che i laici in Italia sono sempre stati una minoranza.
I laici di oggi
La mia "voce" del 1976 terminava con un paragrafo che si intitolava "Laicismo e secolarizzazione" perché ciò ha effettivamente spostato i termini del problema. La secolarizzazione è un termine sociologico, indica il passaggio dalle società tradizionali e chiuse, alle società industriali e oggi post-industriali che sono invece società aperte, urbane, in cui la pratica religiosa diminuisce quella funzione di controllo sociale che esercita nelle società chiuse. La società industriale è una società aperta, la società aperta è una società secolarizzata ; si può dire che la società industriale sia perciò anche una società laica: lo si può dire, ma con qualche riserva doverosa, perché la secolarizzazione, il minor controllo sociale che viene esercitato attraverso la religione, si accompagnano nelle società odierne con forme di superstizione alternative. A quello che era il controllo sociale del culto religioso subentrano forme di superstizione profane: per esempio, la superstizione degli oroscopi che è una tipica superstizione profana; la superstizione dello scientismo, che consiste nel ritenere che vi sia una soluzione tecnica per qualsiasi problema, anche per quei problemi di natura morale che non sono tecnici e, quindi, tecnicamente non si possono risolvere; e, se vogliamo, anche, estendendo il concetto, la superstizione dei sondaggi, la superstizione del successo, forme di espropriazione della responsabilità personale che affidano le scelte di valore a nuovi idoli, a idoli profani. Se queste sono le superstizioni della società secolarizzata, dobbiamo concludere che siamo in minoranza una seconda volta.
L’etica laica e i suoi nemici
Oggi l’etica laica deve misurarsi su due fronti: uno esterno e uno interno. Il fronte esterno è antagonista rispetto ai valori della civilizzazione occidentale. L’avversario più temibile sotto questo profilo è, con ogni evidenza, il fondamentalismo islamico. Già Tocqueville osservava che nel Corano, a differenza che nel Vangelo, le prescrizioni religiose, le prescrizioni politiche e le prescrizioni giuridiche erano messe tutte insieme. In realtà questo non avviene solo nel Corano, ma anche i primi libri della Bibbia, dell’Antico Testamento, sono codici giuridici, di ordinamento politico della comunità. Però, mentre il cristianesimo ha avuto l’evoluzione che tutti conosciamo, l’islamismo ha mantenuto il carattere sincretista per cui le norme giuridiche, politiche e religiose fanno tutt’uno: questo è almeno ciò che avviene nei regimi islamici che proprio per questa ragione si chiamano fondamentalisti. Se noi consideriamo: primo, che l’islamismo è la seconda religione del mondo per numero di fedeli dopo il cristianesimo; secondo, che, a differenza delle popolazioni cristiane che hanno un tasso di natalità piuttosto decrescente, le popolazioni islamiche hanno uno sviluppo demografico esplosivo; terzo, che in ragione di ciò e per le disparità delle condizioni di vita, è in atto una immigrazione imponente dal Sud al Nord che investe direttamente l’Europa e l’Italia stessa, per cui già oggi, ma a crescere nei prossimi anni, vi saranno milioni di cittadini islamici stabilizzati sul territorio europeo e sul territorio italiano; la combinazione dei tre fattori porta a ritenere che, in breve volgere di tempo, il problema del rapporto tra il modello occidentale e il fondamentalismo islamico sarà il problema geopolitico numero uno del Duemila. Alla guerra fredda tra l’Est e l’Ovest, tra il capitalismo e il comunismo, farà seguito la nuova confrontazione tra Nord e Sud, tra civilizzazione occidentale e fondamentalismo islamico.
Se questo è l’avversario esterno, l’etica laica deve misurarsi però anche su un fronte interno alla civiltà occidentale, che riguarda il confronto tra le strutture collettive e l’identità individuale. Per questo dicevo che il laòs dei laici, non è la gente con tre "g"; perché l’etica laica fa riferimento al principio personale della responsabilità. Siccome essere laici significa non premiare i propri meriti in un altro mondo, allora tutto si risolve in questo mondo: in questo mondo noi siamo responsabili di ciò che facciamo e di quello che rimane. Come dice il poeta, "sono un cinico a cui rimane per la sua fede questo aldilà, un cinico che crede in quel che fa". E’ una buona definizione, sia pure un po’ rimata e poetica della responsabilità personale ovvero della etica della laicità.
Da questo punto di vista bisogna evitare di pensare che l’etica laica, come dicono i suoi antagonisti e detrattori, equivalga all’indifferenza, cioè sia l’etica di coloro che sono moralmente indifferenti, che si è liberi perché indifferenti: non può essere così, perché chi è indifferente a tutto finisce per essere indifferente anche alla propria libertà. L’etica laica ha un suo rigore che è rappresentato, anche storicamente, dalle grandi figure della politica e del liberalismo del nostro paese. Se noi pensiamo per un attimo alle maggiori personalità del laicismo politico dell’Italia del nostro tempo - da Croce a Salvemini e a tanti altri - si vede come il loro tratto comune di vita fosse la severità verso se stessi. L’etica laica non concede indulgenza alle infatuazioni, al narcisismo dell’io autocompiaciuto, al conformismo del "così fan tutti". Dunque, l’etica laica dovrebbe essere una combinazione di tolleranza verso gli altri e di severità verso se stessi, mentre in genere è più comodo essere severi con gli altri e tolleranti verso se medesimi.
Etica e politica
Se dall’etica passiamo alla politica, è evidente che, se la responsabilità morale è personale, la convivenza democratica è possibile solo a condizione che le decisioni del potere politico rispettino il pluralismo delle etiche individuali. Dunque, si può dire che la sfera dell’etica ha dimensioni diverse dalla sfera giuridica, dalla sfera del diritto. La sfera del diritto è più circoscritta e limitata della sfera della morale. D’altra parte è di tutta semplicità osservare che vi sono comportamenti moralmente riprovevoli che non sono, però, giuridicamente sanzionati. L’avarizia è considerata un comportamento moralmente poco apprezzabile e tuttavia non vi è alcuna legge che la vieti, salvo che si arrivi a manifestazioni così gravemente antisociali da imporre una vera e propria sanzione penale.
Va poi aggiunto che il principio di tolleranza non è un principio assoluto. Nessuno ha mai teorizzato che bisogna tollerare quello che è intollerabile. A determinare il passaggio tra ciò che è tollerabile e ciò che è intollerabile, non sono altro che le convinzioni correnti della popolazione in un regime democratico; quindi il principio di tolleranza non è assoluto, ma è sempre relativo a una data epoca . Però, nel sistema della laicità, essere laici oggi indubbiamente significa anche attribuire alla sfera giuridica un ambito di possibile interferenza nella vita individuale più ristretto di quello che è l’ambito morale.
L’esempio della bioetica
Venendo qui, ho visto nella vostra sede il manifesto di un convegno con la partecipazione di Maurizio Mori che è un valoroso studioso italiano di bioetica. La bioetica è proprio il campo preferenziale di confronto tra l’etica religiosa e l’etica laica, perché, essendo una disciplina che si occupa della coabitazione tra il corpo e l’anima, chiama direttamente in causa le divergenze tra le due moralità. Dico che è un buon esempio perché il principio della bioetica laica, cioè dell’etica laica della vita, è proprio che non si può prescrivere per legge ciò che è moralmente e persino scientificamente controverso. Per esempio, il fatto che l’embrione sia una persona è scientificamente e moralmente controverso; c’è chi la pensa in quel modo, ma non c’è alcuna dimostrazione scientifica che dimostri che quel modo è obbligatorio come acquisizione vera. E’ una convinzione di carattere morale; allora le cose che non sono scientificamente provate possono essere sì oggetto di una scelta morale ma non possono essere oggetto di una prescrizione giuridica.
Lo statuto dell’embrione può essere uno statuto etico adottato da quelli che la pensano in un certo modo - il che lascia aperta la possibilità che altri la pensino in un modo diverso - ma non può essere uno statuto di carattere giuridico. I grandi casi della bioetica, dall’interruzione della gravidanza al trattamento dell’embrione e così via, nell’etica laica assumono una configurazione riferita costantemente alla responsabilità morale dell’individuo e non all’obbligo della prescrizione giuridica, se non in quei casi in cui la prescrizione giuridica è giustificata da motivazioni di chiara convenienza sociale. E’ difficile spiegare il concetto ed infatti mi accorgo di non averlo fatto bene. Lo stesso Rawls, che ci ha lavorato per molti anni, ha sempre aggiustato le sue definizioni, facendo impazzire i suoi studenti ed invece entusiasmando i tipografi per la grande quantità di articoli che si sono scritti in tutto il mondo in proposito. L’ultima tappa a noi arrivata del suo pensiero è quella dell’ overlapping consensus, il consenso per intersezione, ossia l’idea che la politica non è priva di valori ma può occuparsi solo di quei valori sui quali si può realizzare un consenso per intersezione, un consenso che possa essere condiviso da persone che hanno poi visioni religiose ed etiche complessive anche differenti. I valori della politica devono essere tali da collegare per intersezione soggetti che si riservano nella sfera ultima, nella sfera dei valori che tendono all’assoluto, un pluralismo di posizioni.
Conclusione
La conclusione che offro per la discussione è che il problema del laicismo non riguarda tanto, come lo interpretavano nell’Ottocento, la relazione tra fede e ragione, fra chi crede e chi non crede, e quindi, in campo politico, tra lo Stato e la Chiesa. Il problema del laicismo oggi riguarda soprattutto la relazione tra etica e politica. Essere laici oggi significa ritenere che l’etica è un imperativo della persona e la politica è, invece, una regola della convivenza, che non nega i valori della moralità ma deve riconoscerne il pluralismo.
Replica
Giustamente ha ricordato il Prof. De Fanti che il termine laico è un termine delle lingue latine: si usa in italiano, in francese, non nelle lingue anglosassoni, dove il secolarismo è altra cosa dal laicismo. Ripercorrere il significato dei due termini non è un’impresa molto facile, ma si può, almeno in prima approssimazione, immaginare che ciò abbia parecchio a che vedere con la particolare importanza che il rapporto tra Stato e Chiesa ha avuto nella storia francese e ancor più in quella italiana rispetto ai Paesi a religione riformata. Mi sembra molto importante la seconda osservazione del Prof. De Fanti sul carattere cruciale del confronto, scontro, o soltanto dialogo fra etica laica ed etica religiosa in campo bioetico. Le mie personali convinzioni in proposito non sono differenti da quelle di Maurizio Mori, perché per entrambi l’apertura verso i problemi della bioetica laica è venuta dagli scritti di un grande teorico del pensiero laico, il filosofo del diritto Uberto Scarpelli. Ora, su questo, se vogliamo dire le cose senza troppi complimenti, lo scontro con la dottrina pontificia è inevitabile e gli effetti della dottrina del Papa in materia bioetica hanno una rilevanza planetaria, ad esempio per quanto concerne il problema del controllo demografico dei Paesi più poveri.
La questione viene risolta o, per meglio dire, non risolta richiamando da parte cattolica la centralità della persona. Ma il punto su cui l’etica laica e l’etica religiosa non vanno d’accordo è proprio nel definire che cosa sia una "persona". Un embrione in provetta è una persona, o non lo è ? Dal punto di vista morale si può ritenere che lo sia, ma questo non ha in sé nessuno di quegli elementari connotati di certezza sui quali soltanto si può fondare la prescrizione giuridica. Quindi pretendere che la legge equipari l’embrione ad una persona è una pretesa insostenibile. Si può svolgere un magistero morale per indurre le persone viventi a comportarsi come se anche gli embrioni fossero persone, ma non si può adottare per legge un principio così scientificamente controverso. Non sono un vaticanista e l’unico lavoro che ho fatto nel tempo è un commento alle encicliche del Papa.
Vi si notano cose piuttosto sorprendenti. Ad esempio, recentemente ci si è decisi, dopo tre secoli e più, a rivalutare il povero Galileo. Il fatto che ci siano voluti tre secoli per accettare il principio che in materia astronomica la dottrina religiosa non fa testo e quindi ciò che si dice nelle scritture in questa materia va interpretato in senso storico, ma non come una scienza dell’astronomia indiscutibile, la dice lunga sulla persistenza di determinati atteggiamenti che sono in fondo atteggiamenti di potere. A che cosa si può richiamare un’attitudine di questo genere, se non a una pertinace volontà di preservazione del potere ? E, d’altra parte, poi ogni tanto si aprono grandi squarci. Da ultimo, l’accettazione del principio scientifico dell’evoluzione manifesta un atteggiamento che potremmo, anche se un po’ irrispettosamente, definire laico, nel senso di riconoscere che una cosa è la dottrina religiosa professata dal Papa che ne è il depositario e altra cosa sono i dati della ricerca scientifica concernenti, per rimanere all’esempio, il processo evolutivo delle specie.
Il punto, a mio modo di vedere, è quello che si diceva inizialmente: bisogna preservare il pluralismo delle convinzioni. Se si riconosce il pluralismo delle opinioni, non si può pretendere che una opinione diventi una legge e quindi costringa coloro che sono di opinione diversa a comportamenti che violerebbero la propria libertà di pensiero, come diceva la Sig.ra Briolini.
Alle considerazioni del Dott. Mazzoleni sono portato a rispondere equiparando il termine cattolico-laico che egli ha utilizzato con quello, a me più famigliare, di cattolico-liberale. Si può essere un cattolico-laico ? Io sono portato a tradurre la domanda in "si può essere un cattolico-liberale ?". Si, vi sono stati cattolici-liberali e i più importanti di essi - come Lord Acton - hanno segnalato il modo in cui un cattolico liberale può risolvere il possibile dissidio tra le due posizioni. Acton scrisse - lo parafraso malamente e me ne scuso in partenza - che se come liberale non posso rinunciare alla mia libertà di pensiero e come cattolico non posso venir meno all’obbedienza verso la dottrina della Chiesa, nel caso che la Chiesa mi imponga una dottrina che è contraria alla libertà del mio pensiero ho un’unica soluzione possibile, quella di tacere. Egli praticò quella posizione consegnandosi al silenzio. Non a caso la storia della libertà di Acton si è fermata ai primi due capitoli e non è mai arrivata alla fine. Ora, quella non è una vicenda ottocentesca come la datazione indicherebbe, perché ricordo che è stata rievocata in anni vicini a noi nientemeno che dal Presidente della Repubblica. Ai tempi della spedizione nel golfo Persico, il Presidente della Repubblica Cossiga si pose il problema di cosa egli doveva e poteva fare nel caso in cui il Vaticano, che aveva preso una posizione molto critica verso l’intervento occidentale nella guerra irakena, avesse pronunciato una vera e propria condanna contro i cattolici che partecipassero a quella impresa militare. Cossiga chiese seriamente a se stesso cosa avrebbe dovuto fare, essendo come capo dello Stato favorevole alla partecipazione italiana alla spedizione contro l’Irak, ma come cattolico tenuto all’obbedienza che tutti i cattolici hanno verso il magistero pontificio quando è ufficialmente dichiarato. Egli chiamò in causa Acton, soltanto per dire che Acton quanto meno aveva la possibilità di tacere, ma lui come capo dello Stato non aveva nemmeno quella risorsa. Per fortuna, ci pensò quel generale americano che sbrigò le cose in tempi rapidi e quindi evitò che il dilemma diventasse imperativo per Cossiga.
Qui la questione sollevata dal Dr. Mazzoleni e quella sollevata dalla Sig.ra Briolini si avvicinano alquanto perché c’è una differenza - io credo - nel modo in cui da parte della Chiesa si tratta il problema dello Stato laico rispetto al modo in cui si tratta il problema della cultura laica. Oggi la Chiesa, soprattutto dopo il Concilio, con la dichiarazione "Gaudium et spes" e gli atti successivi, ha accettato la convivenza con lo Stato laico, ma non ha accettato per niente la cultura laica nei suoi presupposti. Accettando lo Stato laico la Chiesa non sviluppa nessuna azione che sia repressiva nei confronti della cultura laica - questo è evidente -, ma dal punto di vista della dottrina la negazione è pressochè implacabile, come ho detto all’inizio.
Non so quanti di voi abbiano letto l’intervista del Papa a Messori. Quando il Papa viene interrogato dall’intervistatore sulla sua posizione nei confronti di vari aspetti del mondo secolarizzato o, comunque, del mondo non cattolico, ne viene fuori un quadro più indulgente verso il fanatismo islamico che verso il relativismo laico occidentale - almeno così appare stando al testo. La condanna del relativismo è totale, intransigente; le posizioni verso l’islamismo anche nelle sue correnti fondamentaliste sono comunque sistemate all’interno di un principio di confronto tra fedi diverse.
Il problema che poneva la signora Briolini sulla cultura della certezza e sulla cultura del dubbio va chiarito nel senso che l’atteggiamento dell’Autorità religiosa oggi è di riconoscere che lo Stato non può imporre a nessuno le certezze in cui non si vuole credere, ma che, se la cultura conduce al dubbio che viene definito solitamente col termine relativismo, quella cultura è incompatibile con la scelta religiosa. Un filosofo come Bobbio, che ha passato ottantasette anni a dubitare e fertilmente continua, è certamente su una posizione molto lontana da quella che la Chiesa intende ammissibile in termini culturali. Nel suo ultimo libro, quando gli viene chiesta una definizione autobiografica, Bobbio risponde: " sono contro tutti i fanatismi, sono tollerante su tutto, ma con i fanatici non posso essere tollerante". Questo ci richiama a quello che prima cercavo di mettere in evidenza e cioè alla sfera dell’etica come sfera delle certezze che, però, sono individuali - ognuno fa benissimo ad essere molto certo di quella che è la sua personale verità, purchè non voglia imporla agli altri - e alla sfera della politica come sfera penultima, che non riguarda i valori assoluti. In questo senso ha ragione la Signora Briolini a richiamarsi alla libertà di pensiero, con una differenza - credo - che si deve fare: mentre la libertà religiosa ha una preminente portata di carattere storico, la libertà di pensiero è molto più ampia. Casi di libertà di pensiero si possono trovare da quando esistono documentazioni sul pensiero pensato; già nel pensiero più antico, nel pensiero classico, ci sono grandi controversie che riguardano la libertà di pensiero. La libertà religiosa, invece, è storicamente il primo dei diritti di libertà; è il diritto di libertà dal quale dalla metà del Seicento incomincia la stagione dei diritti, la stagione di tutti gli altri diritti.
Infine e per rispondere all’osservazione di Provasi, il principio di autonomia in un discorso laico è applicato alla personalità individuale: l’autonomia personale è la definizione del principio di individualità; il principio di individualità ha poco a che vedere con l’individualismo, se si intende per individualismo la convinzione che vi sia un individuo che si riferisce al contesto in cui vive prima di esso e fuori di esso. Gli individui sono tali, ma sono tali in un contesto. Se non ci fosse il contesto non ci sarebbero nemmeno gli individui; ci sarebbe una forma di solitudine individuale. L’individualismo viene in genere interpretato in un’accezione negativa, come una forma di isolamento dalla società, di sottrazione agli obblighi della solidarietà, di scarso spirito comunitario, di mancanza di senso civico o di senso della partecipazione e così via. Se, parlando di individualismo, si fa riferimento a idee di questa specie, queste non hanno nulla a che vedere col problema dell’autonomia. Il problema dell’autonomia significa che ogni persona è autonoma nella scelta dei valori in cui vuole credere; quindi ci sarà chi sceglierà di vivere in conformità a certi valori religiosi, altri sceglieranno di vivere in conformità a valori di carattere sociale o di solidarietà verso il prossimo, altri ancora in riferimento a problemi di razionalità del proprio comportamento o di ricerca della realizzazione legittima delle proprie ambizioni personali. C’è una pluralità di valori sui quali l’individuo decide autonomamente.
Mi pare che il dibattito e gli interventi che ci sono stati abbiano di molto migliorato il contenuto della mia relazione di apertura. Mi ha fatto piacere trascorrere una sera a Bergamo a parlare di questioni che, se vogliamo, segnano anche esse una transizione culturale. Io sono attempato quanto occorre per ricordare un passato in cui le assemblee dei laici e dei laicisti non trattavano i temi di cui abbiamo parlato stasera e non li trattavano soprattutto nei termini in cui se ne è parlato stasera. Ricordo un passato in cui il laicismo era sostanzialmente quello sul quale si era arrovellato il povero Jemolo, chiamato in causa dal Dottor Mazzoleni; il problema che i medioevalisti chiamavano "delle due spade" - quella del sovrano civile e quella del sovrano religioso - ossia il laicismo come problema aperto dei rapporti tra Stato e Chiesa. Non si può dire che la questione sia estinta nella vita pubblica italiana di oggi. Tanto per citare un caso, proprio nei giornali di stamattina si riapre il problema della scuola e della scelta scolastica, delle risorse che lo Stato deve riconoscere a coloro che non scelgono la scuola di Stato per i propri figli, ma la scuola privata, magari di carattere religioso. Le questioni dei rapporti tra Stato e Chiesa sono sempre aperte, ma devo dire in una temperie che si è molto rasserenata, sicchè l’anticlericalismo dei buoni massoni di un tempo non ha più grandi ragioni d’attualità. Poi c’è stata una seconda fase in cui parlare del laicismo era sconsigliabile per tutt’altre ragioni; era considerato uno svago per borghesi e una specie di divagazione per cui la borghesia si trastullava con questi concetti per evitare il duro impatto con la lotta sociale, con il confronto sociale. Oggi mi sembrano tornati i tempi in cui essere laici acquisisce un significato molto importante che, come ho detto concludendo la mia relazione, non riguarda tanto il fatto delle fedi personali, ma il fatto del loro pluralismo e quindi i limiti della politica.
Viviamo un momento di grande confusione come del resto è abbastanza naturale; un momento - per ritornare di nuovo a Bobbio e alle tre categorie della sua classificazione - di rifiuto della politica, disgusto della politica, distacco dalla politica -. Il distacco dalla politica è di quelli che dicono "io ho ben altro da fare, la politica è una cosa per quelli che ci campano, io ho il mio studio, la mia impresa, il mio lavoro, la mia famiglia e di politica non me ne occupo". Il rifiuto della politica è di quelli che dicono "la politica è un’attività malfamata con cui ci si sporca facilmente le mani e quindi bisogna risolvere i problemi pubblici il più possibile senza ricorrere al percorso politico, ma, per esempio, attraverso la tecnocrazia o altre forme di soluzione di questi problemi". La rinuncia alla politica è quella di coloro che non dicono né la prima né la seconda cosa, ma semplicemente evitano di parteciparvi. Quest’ultimo, per conto mio, è il dato più significativo sul quale bisogna riflettere. Se esaminate l’ultima elezione di medio termine con cui il partito repubblicano ha conquistato la maggioranza del Senato nel Congresso degli Stati Uniti, noterete come nella più grande democrazia del mondo il risultato elettorale è stato deciso da meno del venti per cento dei voti. I partecipanti sono stati meno della metà, lo scarto tra i due blocchi è stato minimo e quindi nel più importante parlamento del mondo si vince la maggioranza con il venti per cento di partecipazione effettiva. Questo è uno dei veri aspetti oggi della questione sociale, perché in questa rinuncia alla partecipazione, c’è un evidentissimo fattore sociale. Coloro che sono al di sotto della soglia per condizioni di vita, di reddito e di influenza sociale per essere elettori interessanti, non vengono contattati da nessuno e non votano. Nell’astensionismo americano il fattore sociale è determinante: i poveri non votano.
Il problema della partecipazione è connesso anche al problema dell’informazione. Il fatto è che un sistema di informazione politica quasi totalmente affidato allo strumento televisivo, rompe anche quei legami di partecipazione e di dialogo che sono importanti nel rapporto politico correttamente inteso. Viviamo un momento di crisi della politica, di confusione della politica. Credo che per uscirne bisogna ricondurre la politica alla sfera che le appartiene, che non è la sfera delle convinzioni definitive di cui ciascuno è depositario soltanto per sé, ma è la sfera delle regole comuni con cui, avendo ciascuno un proprio sistema di valori differente da quello degli altri, si può cercare insieme di costituire una società migliore, una convivenza meglio organizzata, un assetto sociale ritenuto più giusto. Questo per me significa essere laici oggi.
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