domenica 22 aprile 2007

L'eccezione francese

Parigi e il mondo di Jacques Attali

da Corriere.it

Si accende il dibattito sulla Francia e il «modello» francese. Paese, lo so, considerato una strana creatura. Capace, da un momento all'altro e per ragioni oscure, di indire scioperi di storiche proporzioni. E che, so benissimo anche questo, è spesso vista come l'ultimo ricettacolo di burocrati sulla faccia della terra, sorta di gigante dormiente. Di fronte a fragorose azioni di sciopero contro il licenziamento ingiustificato dei giovani lavoratori, molti restano perplessi. E altrettanti si convincono che il niet francese alla flessibilità del mercato del lavoro rispecchi semplicemente un'indisponibilità a fare i conti con la realtà.

La verità è ben diversa. Eccola: il mondo nutre, verso la Francia, sentimenti d'invidia. Sì, se la Francia attrae più turisti e investitori stranieri di qualsiasi altro Paese al mondo, è perché nessuno offre una qualità della vita tanto elevata. E quando sento i britannici bastonare le presunte debolezze del mio Paese, mi chiedo perché così pochi francesi abbiano un cottage nella campagna inglese, mentre i cittadini d'Oltremanica fanno a gara per comprare casa in Francia. La risposta è sempre la stessa: la qualità della vita è, in Francia, tra le più elevate — se non la migliore — al mondo. Nessun dubbio al riguardo. Né è vero che il Paese veda avanti a sé una fase di decadenza: anche il tasso di produttività per ora lavorata è tra i migliori su scala mondiale. Siamo al primo, secondo o terzo posto in numerosi settori, e così sarà anche in futuro. Quanto a lungo, dunque, potrà sopravvivere la caricatura di una Francia «pigra»? Esiste, va da sé, più d'un buon motivo per criticare il mio Paese. Ad esempio, la natura della sua élite politica: vegliarda, al potere da oltre trent'anni, avvinta al passato, ignara della realtà del mondo. E tanto patetica quanto i giovani francesi sono dinamici. La rivoluzione è ineluttabile. Quando? Come? Sarà veloce? Pacifica? Radicale? Certo è che si imporrà una nuova élite, in sintonia con il profondo dinamismo del popolo francese. E le elezioni serviranno a fare un po' di luce al riguardo.

Onde evitare che gli stranieri si facciano idee sbagliate, però, meglio essere cristallini: la Francia, e la sinistra francese in particolare, non si arrenderà ad alcun modello. Mai la prima diverrà la fotocopia di un altro Paese. Quanto alla seconda, proseguirà per la sua strada, pur continuando ad ammodernarsi con l'aiuto delle nuove tecnologie. Sì, la Francia rappresenta un'eccezione, ma non più di quanto non lo sia qualsiasi altro Paese, e ciò in ragione della sua storia, geografia e cultura. Ergo, non esiste alcuna ragione per cui destra e sinistra nazionali dovrebbero tentare di scimmiottare dottrine o ordinamenti in auge oltreconfine. Tanto più che la seconda costituisce, con la sua ricerca di giustizia e mobilità sociale, lo specchio della società francese. La Francia si è formata attorno a un forte Stato centrale, una lingua comune e progetti ambiziosi. Ciò che ne ha fatto il Paese che oggi conosciamo: una nazione forte, con un tenore di vita elevato, una speranza di vita che aumenta di tre mesi ogni anno, infrastrutture di trasporto che toccano l'eccellenza e, come già detto, più turisti, abitanti stranieri e investimenti diretti esteri di qualsiasi altro Paese europeo, Gran Bretagna compresa.

Se questa è l'eccezione francese, ben venga. Così, il Paese non può — né dovrebbe — cancellare le sue prerogative soltanto per compiacere i propri competitor. Non c'è alcun modello di sinistra ideale e universale che la Francia — o chicchessia — dovrebbe imitare. Esistono circostanze nazionali, tutto qua. In termini politici, il futuro della sinistra non è nella resa a un'economia di mercato sempre più opprimente, bensì nell'ideazione di nuove strategie atte a controbilanciare quest'ultimo con la democrazia. Trovando un equilibrio che, assieme ai mezzi per conseguirlo, muta da Paese a Paese.

Di qui l'accordo, nell'attuale campagna per le presidenziali, tra tutti i partiti di centrosinistra a mantenere un equilibrio tra il potere dello Stato (cruciale ai fini tanto del Welfare che della tutela di lingua, politiche industriali, apparato di polizia e difesa, politica estera, sicurezza sociale, integrazione — soprattutto sociale — e di una maggiore attenzione al dossier relativo a energia, sanità e pensioni) e quello delle Regioni (cui spettano le decisioni relative a cultura, innovazione, ambiente, istruzione e rete stradale).

La difesa della lingua francese quale collante della nazione è, in un'epoca in cui la globalizzazione pare suggerire che altri Paesi stiano perdendo questa battaglia, tra i futuri compiti chiave dello Stato. Né la destra né la sinistra francese auspicano che il proprio Paese diventi una congerie di comunità etniche. Paese che ha numerosi problemi da affrontare: l'elevato tasso di disoccupazione, l'insufficiente mobilità, l'istruzione superiore scadente, l'emergenza abitativa, l'integrazione sociale delle minoranze, il debito pubblico e il rischio di declino industriale sono solo alcuni degli esempi. Nessun modello straniero, però, può garantire la loro soluzione. La sinistra francese si compiace di studiare il cosiddetto «modello britannico» e tesse le lodi di alcune sue prerogative, vedi la politica del lavoro. Ma andrebbe messa in guardia dal copiarlo tout court. Poiché, ad esempio, essa crede fortemente nell'assimilazione, dovrebbe diffidare dal ripetere la pericolosa involuzione verso esistenze atomizzate e comunità isolate che si registra in Olanda o Gran Bretagna. Né è sua convinzione che una nazione possa sopravvivere in assenza di una solida struttura industriale. Il Regno Unito, per fare un esempio, non può reggersi unicamente sulla City di Londra.

La Francia, quindi, deve puntare sui propri asset: uno Stato forte, un sistema sanitario efficiente e una solida base industriale. E tentare di minimizzare le sue principali debolezze potenziando mobilità, ricerca e competitività.

La prossima sfida consisterà nell'innesto di idee nuove nella dottrina della sinistra, in Francia come altrove. Finora, la globalizzazione ha toccato soltanto la sfera economica. Quel che serve, invece, è anche una globalizzazione della democrazia. A tal fine, occorre pensare all'uso delle moderne tecnologie in campo politico, a un più diffuso accesso all'informazione e a un nuovo concetto di democrazia partecipativa. Considerare l'apprendistato quale attività degna di una retribuzione decente, non di sfruttamento. E ripensare, dando loro nuova linfa, le istituzioni di governance globale.

Sono soltanto alcuni degli obiettivi in vista dei quali i partiti socialdemocratici di tutti i Paesi dovrebbero prodigarsi. Insieme. Lasciando da parte ogni tentativo di esportare personali quanto singolari «panacee» in realtà totalmente inadatte ad accoglierli.
Jacques Attali
Economista, scrittore, è stato consigliere di François Mitterrand
New Statesman / Global Viewpoint
(Traduzione di Enrico Del Sero)
22 aprile 2007

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